domenica 11 luglio 2010

SPAGNA CAMPIONE DEL MONDO.

OLANDA-SPAGNA 0-1 (0-0 dopo tempi regolamentari)



MARCATORE:
Iniesta all’11’ s.t.s.

OLANDA (4-2-3-1): Stekelenburg; Van der Wiel, Heitinga, Mathijsen, Van Bronckhorst (dal 15’ p.t.s. Braafheid); Van Bommel, De Jong (dal 7’ p.t.s. Van der Vaart); Robben, Sneijder, Kuyt (dal 25’ s.t. Elia); Van Persie. (Vorm, Boschker, Boulahrouz, Ooijer, De Zeeuw, Schaars, Afellay, Babel, Huntelaar). All. Van Marwijk.

SPAGNA (4-1-4-1): Casillas; Sergio Ramos, Piquè, Puyol, Capdevila; Busquets; Pedro (dal 14’ s.t. Navas), Xavi, Xabi Alonso (dal 42’ s.t. Fabregas), Iniesta; Villa (dal 1’ s.t.s. Fernando Torres). (Reina, Valdes, Marchena, Albiol, Arbeloa, Martinez, Silva, Llorente, Mata). All. Del Bosque.

ARBITRO: Webb (Ing).

NOTE: spettatori 84.490. Espulso Heitinga per doppia ammonizione al 4’ s.t.s.. Ammoniti Van Persie, Puyol, Van Bommel, Sergio Ramos, De Jong, Van Bronckhorst, Heitinga, Capdevila, Robben, Van der Wiel, Mathijsen, Iniesta, Xavi. Recupero 2’ p.t. 3’ s.t.; 1’ p.t.s., 2’ s.t.s.


Dopo l’Europa, il mondo. Come la Germania 1972-1974 e la Francia 1998-2002, anche la Spagna consegue la doppietta fra titolo continentale e mondiale. Si può parlare ufficialmente di un ciclo. Naturalmente lo si vuole anche etichettare questo ciclo, per una questione di comodità, e l’etichetta più in voga è sicuramente quella del “tikitaka”, inteso come gioco propositivo, avvolgente e basato sul possesso-palla non solo come strumento per aprire spazi nella difesa avversaria schierata, ma anche come premessa fondamentale dell’equilibrio difensivo. Si può pensare che, fra nazionale e club, in tutti questi anni, tale stile di gioco si sia affermato come quello più riconoscibile e originale nell’intero panorama europeo.
E questo, si badi bene, è un discorso che viene prima dell’eventuale giudizio estetico, sempre e soltanto soggettivo, che si può avere su una simile proposta. È come per le correnti artistiche: il sottoscritto il cubismo non lo apprezza proprio (anche se si trova sempre un tizio che agita il ditino ammonitore esclamando “ma come, questo è un Picasso!”), ma non può comunque negare la rilevanza che ha avuto all’interno della sua disciplina.
La Spagna del calcio degli anni ’90 e ‘2000 (che trova il proprio momento fondante nella Quinta del Buitre prima e nel Dream Team di Cruijff poi) ugualmente ha creato una propria cultura, l’ha coltivata (al di là delle ricorrenti considerazioni superficiali della stampa specializzata e dei tifosi iberici su cosa è buon calcio e cosa no), l’ha difesa, l’ha affermata, e ha raccolto i frutti che meritava. Tuttavia, per quanto riguarda questo mondiale, non sono d’accordo con chi parla della vittoria di una filosofia.
La filosofia di gioco infatti c’era, ma è stata applicata in maniera convincente così poche volte (sostanzialmente contro la Germania e nei 20 minuti iniziali con il Portogallo) che non si può dire che si tratti di una vittoria della stessa, dell’affermazione di un modello, come avvenne invece nelle ultime due gare dell’Europeo 2008 o nelle vittorie del Barcelona a livello di club. Si può parlare invece della giusta consacrazione di una generazione di calciatori difficilmente ripetibile, tutti accomunati da uno stesso linguaggio calcistico e tutti portati soprattutto a mettere il loro talento al servizio del collettivo. Tre i nuclei fondamentali: quello del vittorioso Mondiale Under 20 del 2000, con Iker Casillas e Xavi (e anche Marchena, ma in panchina), quello emerso verso la metà del decennio, con Fernando Torres, Iniesta, Xabi Alonso e Villa, e infine quello della seconda metà degli anni 2000, coi Sergio Ramos, Piqué, Busquets, Silva, Pedro & C.
Tutti accomunati dalla stessa cultura, segno che qualcosa si è saputo costruire al livello della cantera (nonostante nazionali giovanili spesso raccogliticcie sul piano dell’organizzazione), al di là della straordinaria concentrazione di talento. Son giocatori con le idee chiare, “istruiti” oltre che talentuosi, facilmente portati ad amalgamarsi in base a queste caratteristiche (la Spagna di Aragonés arrivò a giocare a memoria non certo perché Luis stava lì tutto il giorno a organizzare tattiche in laboratorio come un Bielsa…). Del Bosque, la cui gestione ribadisco che continua a non entusiasmarmi, ha avuto se non altro il pregio di rispettare questo patrimonio.

Fatta la dovuta premessina-panegirico, non possiamo non sottolineare la bruttezza di questa finale. Bruttezza merito dell’Olanda, che cercava proprio una partita meno fluida possibile, in un intento prevalentemente ostruzionistico e oltrepassando spesso i limiti che separano il semplice agonismo dal gioco scorretto. Ha fatto sguazzare la Spagna nel non-gioco e ha avuto pure le sue occasioni, in una partita segnata da un arbitraggio discutibilissimo che ha colpito da entrambe le parti.

Confermate le formazioni-tipo, i primi dieci minuti sembrano preannunciare un chiaro dominio spagnolo, con un colpo di testa di Ramos su calcio piazzato dalla destra salvato da Stekelenburg, un tiro-cross sempre di Ramos che attraversa pericolosamente l’area piccola olandese e un sinistro al volo di Villa sull’esterno della rete sul conseguente calcio d’angolo. Ma è un’illusione, perché le Furie Rosse entrano presto nelle sabbie mobili.
L’Olanda anti-Spagna pratica una zona molto poco ortodossa, quasi a uomo, anche se la zona in cui ricevono gli spagnoli rimane comunque il principale riferimento per le marcature. Quando la Spagna ha il pallone, De Jong (più spesso di Van Bommel) è l’ombra di Xavi, Van Bronckhorst segue Pedrito fino ad accentrarsi o salire tantissimo abbandonando la posizione di terzino sinistro e a coprirlo è Kuijt, che segue invece Ramos. Personalmente non è un tipo di difesa che mi faccia impazzire, preferisco una zona pura che prescinda da marcature individuali (ad esempio quella proposta dal Giappone) per difendere in blocco mantenendo sempre le distanze corrette fra i giocatori e fra i reparti, cercando di intercettare le linee di passaggio prima che inseguire l’avversario. Però va detto che l’Olanda interpreta questo suo gioco con notevole concentrazione.
Giocando praticamente uomo contro uomo, il primo duello perso rischia di farti trovare tutto scoordinato col resto della squadra, però gli olandesi duello dopo duello riescono ad impedire alla Spagna di fare il suo calcio, spesso e volentieri ricorrendo alla violenza. Anche questo va riconosciuto, soprattutto di fronte a precedenti come Svizzera e Paraguay che hanno anche loro annullato il gioco spagnolo, ma in maniera nettamente più pulita e tatticamente raffinata.
Fra entrate intimidatorie e proteste continue, è l’Olanda più “sporca” che mi sia capitato di vedere da quando seguo il calcio. Fra le tante prodezze di una partita chiusa con nove ammonizioni (!) e un espulso nelle file oranje, allucinante l’entrata a tacchetti spianati di De Jong sul petto di Xabi Alonso, che già nel primo tempo avrebbe dovuto lasciare l’Olanda in dieci, tanto più quando avviene sotto gli occhi di Webb situato proprio a due passi. A questo (e a un giallo scampato da Sneijder, che coi tacchetti ci va sulla coscia di Busquets) durante i 120 minuti, e non proprio verso la fine, si sarebbe potuta anche aggiungere una seconda ammonizione per Van Bommel, francamente sgradevole per la reiterata durezza delle entrate e gli atteggiamenti sempre antipatici tanto verso i giocatori avversari come verso l’arbitro.
Non sarà ortodossa, ma comunque l’Olanda in questo modo riesce ad accorciare tantissimo lo spazio giocabile, come non era riuscita a fare la Germania. A differenza dei tedeschi pressa subito i difensori spagnoli, impedisce ad Iker di giocare corto dal fondo e soprattutto non concede lo spazio tra le linee. Anche se attraverso la zona imbastardita di cui sopra, l’Olanda toglie alla Spagna la chiave tattica della gara contro la Germania, ovvero gli appoggi sulla trequarti di Pedrito “alla Silva” e di Iniesta.
Gli oranje spezzano del tutto la continuità d’azione spagnola (nemmeno due passaggi di fila, zero cambi di gioco), e portano la gara nel terreno prediletto, rendendola irregolare e nervosa.
Poi si riesce pure a tenere palla un po’ di più, con Stekelenburg che non ha nessuna fretta a cincischiare passandosela coi difensori (anche questo fa brodo nella battaglia per assicurarsi il controllo del tempo oltre che dello spazio, le due dimensioni fondamentali del gioco), ma soprattutto riesce ad attivare Kuijt e Robben in zone più avanzate. Un fattore di stress notevole per la Spagna, che per contenere il buon Arjen (cervello calcistico limitatissimo, ma gambe e piedi cui è quasi impossibile stare dietro) deve mandare dai due ai quattro giocatori (!), fra i ripiegamenti di Iniesta e Pedrito in aiuta a Capdevila e gli slittamenti laterali di Xabi Alonso e Puyol.
E Robben nel recupero si rende protagonista del primo avvicinamento serio alla porta di Casillas, classico movimento a rientrare sul sinistro e conclusione da fuori verso il primo palo deviata in angolo.

La ripresa testimonia ancora di più come l’Olanda si trovi comoda in una partita inguardabile. Della Spagna non si hanno notizie, mentre gli arancioni esaltano il proprio ostruzionismo fino al punto di trasformare l’ossimoro in realtà, inventando la “sportività antisportiva”. Sempre il mitico Van Bommel: la Spagna sta attaccando sulla trequarti avversaria, butta il pallone fuori per far soccorrere un giocatore, e a quel punto Van Bommel non solo lo restituisce lontanissimo (cosa che purtroppo fanno tutti), ma evita apposta di restituirlo a Casillas, per destinarlo invece, con un sapiente tocco d’esterno in fallo laterale, vicino all’area spagnola, per dare agli olandesi il vantaggio di poter salire a pressare la rimessa. Il labiale di Xavi, colto dalle telecamere e rivolto proprio all’ex compagno blaugrana, è inequivocabile: “y también va a presionar, ¡mamón!”.
Si cita quest’episodio giusto per passare il tempo, perché non succede nulla, almeno fino al 61’. È un classico di queste gare che chi inizia con l’idea di fare la partita e si veda frustrato alla fine sia più propenso a cadere nelle distrazioni e concedere l’episodio letale. Avrebbe potuto esserlo la fuga di Robben, ispirata da un lancio di Sneijder che coglie la difesa spagnola larga al centro: Arjen saluta tutti, ma non è sufficientemente freddo davanti a Casillas. Uno degli episodi decisivi della serata.
Una gara che col passare dei minuti comincia ad aprirsi, perché influisce la stanchezza. L’Olanda può sempre meno praticare quel gioco di duelli intensissimi e di pressione individuale asfissiante (più dispendioso di una zona ben fatta). Quindi ripiega mantenendo più riconoscibili le due linee di difesa più riconoscibili, presidiando più che che andando a caccia dell’avversario, ma gli spazi aumentano, è fisiologico.
Questo cambia anche le esigenze degli allenatori: è un momento in cui ci si può giocare maggiormente la carta della velocità e degli uno contro uno, e praticamente tutti i cambi risponderanno a questa logica. La prima mossa è di Del Bosque, con Navas al posto di Pedrito (che certo non ha replicato la brillante prova con la Germania). Il sevillista ti dà meno soluzioni tattiche, ma è più dotato. Da lui nasce l’occasionissima che Villa, servito da un’incredibile ciccata di Heitinga, spreca sottoporta al 69’. Anche Van Marwijk ragiona così, velocità e dribbling, quindi dentro lo spettacolare Elia.
Ramos al 76’ fallisce un’altra ghiotta occasione (su un calcio d’angolo non lo marca nessuno ma lui di testa manda sopra la traversa), al 77’ Iniesta rischia per una reazione su Van Bommel, ma la bomba è all’82’, su un casuale ma affilatissimo contropiede olandese: ancora Robben sbuca e si beve tutti i metri di vantaggio di Puyol, va come un treno ma non riesce a dribblare Casillas. Episodio piuttosto sospetto, perché Puyol allunga un braccio su Robben lanciato, sarebbe trattenuta ed espulsione, ma l’olandese resta in piedi (molto sportivo nell’occasione, o forse solo pienamente convinto di poter segnare) e scappa.

Altri cambi all’insegna del “ci sono gli spazi, giochiamocela”. Cesc per Xabi Alonso è giusto, nell’intento di dare una proiezione più verticale al gioco spagnolo. Idem Van der Vaart per De Jong nel primo tempo supplementare, al 99’: De Jong è già ammonito, poi la squadra è stanca, non può accorciare più come prima, allora tanto vale mettere nel cuore del centrocampo il madridista, che certamente aumenta le possibilità di rilanciare l’azione.
Con questi spazi nei supplementari la gara comincia a pendere leggermente verso la maggior qualità della Spagna (che reclama un rigore su Xavi al 91’: a me non sembrava tale, poi la moviola della RAI fatta da un ex-arbitro dice che invece c’era, e allora non so cosa pensare), grazie anche alla freschezza di Cesc e Navas. Cesc si mangia un gol al 94’ su un contropiede che permette a Iniesta di smarcarlo davanti a Stekelenburg: errore analogo a quello di Robben nei tempi regolamentari, scarsa freddezza.

Il secondo tempo supplementare vede l’ingresso di Torres al posto di Villa, anche questo giusto perché il Guaje non ne ha più e soffre comunque tutta la serata nella posizione di punta “troppo unica", costretto eccessivamente ad appoggiare spalle alla porta e mai liberato nelle percussioni che preferisce, partendo dalla fascia o pochi metri fuori dall’area.
Dai e dai, l’Olanda rimane in dieci uomini: secondo giallo al 106’ per Heitinga, nemmeno il più cattivo degli olandesi (poi Webb grazierà Robben, a norma meritevole anche lui della seconda ammonizione per aver concluso a gioco già fermo), ma sicuramente l’anello debole della difesa. Giocatore fisicamente esuberante, dotato pure di discreta tecnica, ma con letture difensive che troppo spesso lasciano a desiderare. Meglio, molto meglio, Mathijsen, il migliore in campo per gli olandesi: solitamente snobbato e accompagnato dall’ingeneroso ritornello “eh, ma al suo posto un tempo c’era Krol”, il mancino dell’Amburgo ci mette concentrazione, tempismo, sobrietà e in alcuni momenti persino eleganza, mantenendosi su standard di gioco pulito alieni a molti dei suoi compagni.
A quattro minuti dalla fine Iniesta entra nella storia, al termine di un’azione confusa e di nervi tipica di queste partite quando arrivano ai supplementari. C’è anche un siparietto di protesta degli olandesi, che reclamano a ragione per un calcio d’angolo clamorosamente non visto, ma avvenuto quasi due minuti prima…

VALENTINO TOLA

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FURIE...COMMOSSE!

Minuto 116, Iniesta sta per scoccare il dardo che si rivelerà vincente ed in quei lunghissimi, interminabili istanti riavvolgo il nastro della memoria, come il morente che vede passarsi davanti tutta la vita in un attimo prima di tirare le cuoia, e la Spagna calcistica degli ultimi 25 e passa anni, intesa come nazionale maggiore, mi scorre veloce con il suo carico beffardo di momenti che non arrivavano mai per il gioco crudele del destino e per la pervicace mattanza arbitrale cui di tanto in tanto era sottoposta la roja, rossa di vergogna, rossa dall'ira.
Quando l'Andrès manchego è solo a due lettere dal riscrivere la storia, una gomitata mi sconquassa l'anima, un colpo secco, un residuale storico che giunge nella frescura sudafricana dalla canicola americana, da quel vulcano di lava bollente di Foxborough quando il 9 luglio di sedici anni orsono un energumeno chiamato Tassotti assesta un colpo di una violenza e viltà inaudita spaccando la faccia ad un Luis Enrique grondante di sangue, lacrime e vendetta e scippando sotto gli occhi freddi e calcolatori del pannonico Sandor Puhl una qualificazione alle semifinali che sarebbe stata sancita dal rigore solenne più radiazione del pessimo terzino destro. Episodio che invece consentì alla "Banda Bassotti", anzi, scusate, "Banda Tassotti" di arrivare sino alla finale dopo che nel turno precedente (ottavi) si era sfruttata l'occasione di rimanere aggrappati al mondo dalle scale dell'aereo del mesto ritorno, tramutando il oro il torello da spiaggia di Oliseh e soci nigeriani per arrivare ad affrontare la Spagna di Clemente.
La storia recente ci aveva già raccontato dei rigori di Puebla nei quarti contro il Belgio, ci avrebbe poi deliziato delle papere di Zubizarreta in Francia, della combine in Corea del Sud-Giappone, dello scontro troppo anticipato con la Francia quattro anni fa senza dimenticare incidenti di percorso vari agli Europei.
Quindi, quel pugno alla malvagità inaudita della storia che stava per assestare il più mite e timido degli spagnoli, sembrava proprio un tardivo e parziale "recupero crediti" da parte di un'intera nazione beffata dal Dio Pallone per troppe, troppe volte.
E così, il più mite e timido, come dicevamo, aveva finalmente l'occasione per fare almeno in parte giustizia e con tutta l'acqua cheta che si portano dietro i taciturni, rompeva i ponti, anzi il ponte con il passato e la storia che al minuto 116 veniva definitivamente riscritta e riveduta a livello mondiale. Non più spagnoli strepitosi nelle qualificazioni e nell'avvicinamento ai mondiali, ora anche tremendamente efficaci e che a colpi di uno a zero si beffavano passo dopo passo di avversari e destino come nel più classico esempio di contrappasso.
Un finale che non poteva essere diverso per una generazione di fenomeni che sta creando parecchie illusioni e che sta godendo del plauso sincero e meritato di gran parte del mondo del calcio, e a livello planetario. Calciofili, addetti ai lavori, semplici spettatori sono concordi (quasi tutti) sul valore assoluto di questa generazione di calciatori e di questa filosofia di gioco.
Una finale quasi annunciata dal sottoscritto al momento di stilare una griglia personale di favorite (articolo sul blog) nella quale l'Olanda ha fatto quasi tutto al meglio delle proprie potenzialità contro una squadra che ha già fatto la storia (e la doppietta Europeo-Mondiale) e che probabilmente segnerà un'epoca per stile di gioco e risultati in virtù dell'enorme ricambio e della gioventù di gran parte dei 23 della spedizione sudafricana.
L'Olanda è stata spazzata via, durante le gare di questo mondiale, da giudizi superficiali, poco professionali e ingiusti da parte dei media televisivi, stampa e addetti ai lavori continuando ad essere paragonata ad una generazione che mai più tornerà con così tante figure mitologiche e con cotanta capacità di segnare un periodo storico del calcio pre-moderno. Come si fa a prendere ad esempio l'Olanda di Cruijff, Rensenbrink, Rep, Krol, Neeskens, Suurbier, i gemelli Van de Kerkhof, Haan, Van Hanegem...? Come si fa a porre l'asticella dei paragoni così in alto? Mi sembra oggettivamente una questione su cui non stare a dilungarsi nemmeno un secondo in più: QUELLA ERA E RIMARRA' UNA GENERAZIONE DI STELLE INARRIVABILE PER UN PAESE DI POCO PIU' DI 16 MILIONI DI ABITANTI... ! Punto!
L'Olanda d'oggi è un'Olanda dotata, tecnica al punto giusto, solida nei reparti che, prima della finale, aveva inanellato ben 25 risultati utili comprese le 8 vittorie nel girone qualificativo a 5 squadre che aveva proiettato gli orange in Sudafrica con il 100% dei punti (come la Spagna). Paesi Bassi non tremendamente spettacolari ma assiduamente tentacolari con un gioco sparagnino, votato più al fatto che alla dimostrazione, alla giostra libera dell'ultimo Europeo si è aggiunta la cassa dove si deve pagare il biglietto per divertirsi. Un pedaggio che via via, hanno dovuto pagare Danimarca, Giappone, Camerun e Slovacchia prima della "montagna russa" verdeoro su cui i giostrai arancioni sono saliti (loro) per poi scendere senza vertigini, anzi facendo piangere i fanciulli sudamericani. Un ultimo colpetto con l'Uruguay e poi spediti verso i toreri arrivando laddove si era spinta e spenta la generazione dei Cruijff, ma con l'onore delle armi e resistendo alla Spagna come nemmeno la Germania dell' 8-1 all' Argentinghilterra aveva potuto vantare qualche giorno prima.
La gara invero poco spettacolare, ha ricalcato il copione di mille finali dove la posta in palio rende anche il "volatile" e "volubile" Jabulani una palla medica e i piedi più fini sembrano usciti dal ferramenta.
Il filo conduttore che aveva accompagnato le uscite iberiche è stato sapientemente e brutalmente allentato dalla tattica raccolta olandese e dalle mazze chiodate di De Jong e Van Bommel pronte ad infliggere colpi da calcio uruguagio che fu, con un Webb preso in mezzo tra l' applicare la sanzione e scatenare la reazione o dare l'occasione per una nuova redenzione. Optando per la seconda si è inghiottito almeno un paio di rossi profondamente rossi che persino Dario Argento sarebbe inorridito. Prima Van Bommel solleva letteralmente da terra Iniesta come una una macchina tosaerba fa saltare in aria i fili d'erba (ma Iniesta è comunque un corpo solido, benché esile), poi De Jong decide di azzannare il cuore di Xabi Alonso con una "Cantona" d'autore. Sempre nel finale di tempo poi, Sneijder decide di dissimulare un intervento fallosissimo ed intenzionale con un colpo di prestigio (si rotola a terra tarantolato per indurre l'arbitro a pensare che l'mpatto sia stato contemporaneo a Busquets mentre il fallaccio è solo suo) imparato con l'insegnamento di un anno del mago dei prestigiatori, Mr Mourinho.
Aldilà dell' aldilà c'è però da sottolineare la grande compattezza olandese e l'enorme recital di un Van Bommel che spurio di provocazioni e trucchetti rimane un Signor centrocampista e la perfetta sincronia della coppia Heitinga-Mathijsen, la vera forza di quest'Olanda 2010...altro che Sneijder-Robben...I due centrali coronano un mondiale assolutamente rimarchevole con l'ennesima prestazione impeccabile. Mathijsen, che mancava proprio contro il Brasile del gol in prefetta solitudine nel cuore dell'area di Robinho, sta incorniciando due ultime stagioni meravigliose disputate con la maglia dell Amburgo e sentire le continue aspre critiche che piovono dalla stampa e dai commentatori tv italiani a questo difensore mi fa inorridire. Comanda la difesa, sempre puntuale, concentrato, e l'uomo che chiama il fuorigioco, deciso e pulito negli interventi, il piede è più che valido, ma il ritornello su questo giocatore è un mantra che ha sinceramente stufato. Heitnga, riciclato da Moyes nell'Everton come mediano, nell'Atletico ha giocato anche da terzino destro è stata la vera sorpresa dell'Olanda mondiale. La Spagna, che nelle altre gare ha spesso violentato le cerniere centrali delle altre squadre, è penetrata pericolosamente solo in un paio d'occasioni in 120 minuti più recuperi.
L'Olanda, che schierava 5 reduci della Liga, dai recenti Heitinga, Robben e Sneijder ai "vecchi" Van Bronckhorst e Van Bommel ha subìto un tiqui taca meno incisivo del solito e addirittura nel secondo tempo ha messo la testa fuori con un'occasione che Robben ricorderà vita natural durante.
Alla girandola di ali cambiate nel secondo tempo (Jesus Navas per Pedro, Elia per Kuijt) e di occasioni (Sergio Ramos alla terza della serata manda sciaguratamente alto di testa, Villa solo davanti ad un Heitinga sdraiato tira sul corpo dell'olandese hanno riempito di panico tutti gli appassionati spagnoli, Mathijsen di testa eguagliava il Ramos del secondo tempo ed aumenta i rimpianti orange) non fa seguito un cambio nello score che, rimanendo intonso porta tutti ai supplementari dove si registra un lento ma incalzante dominio spagnolo favorito dalla forza fresca Fabregas che si procura un'altra chiarissima opportunità da rete e poi fornisce l'assist dell'apoteosi a colui che più di tutti incarna lo spirito e la classe della generazione dei palleggiatori; palleggio finalizzato allo spettacolo ed al risultato che fa provare uno strano piacere, quello di voler ritornare sui campi a rigiocare e reimparare a giocare al calcio, il gioco più semplice del mondo se hai il genio nei piedi e nella testa.. .Mai vittoria fu più meritata...(sembra di ricordare una frase già sentita nel 2008...)!

VOJVODA

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Vince la Spagna, come da pronostico. Vince la finale, soffrendo non poco l'Olanda che gioca forse qui la sua migliore partita: sicuramente la più ordinata. Van Marwijk abbozza una strategia iniziale perfetta non concedendo mai il gioco tra le linee agli spagnoli. Certo, a mio parere, avvantaggiato dall'assenza di una punta centrale (Torres o Llorente) forte fisicamente, occupando maggiormente i due centrali Heitinga e Mathijsen, due onesti mestieranti che invece hanno fatto un figurone. Bravo van Marwijk, inferiore certamente per qualità e mezzi, a cercare di muovere la partita proponendo idee vere come l'entrata in campo di Elia a sinistra e soprattutto van Der Vaart per de Jong e la riproposizione di una specie di 4141 che aveva funzionato in semifinale contro l'Uruguay. Le occasioni per andare i vantaggio gli arancioni l'hanno avuta, anche evidente, con Robben. E solo essere arrivato a giocarsi una partita che poteva essere decisa da un episodio certifica della bontà del lavoro del CT olandese, fin qui soprattutto agevolato da un tabellone non impossibile. La Spagna vince proponendo una novità calcistica come nessuno, a livello di nazionale, nel football moderno. Una diretta conseguenza del lavoro svolto in questi anni dal Barcellona, a partire dall'era Cruijff in poi. Tuttavia se l'atteggiamento del Barça è volto alla ricerca di un'alternativa credibile pur nella continuità della situazione chiave di possesso palla, la Spagna si è molto avvitata su se stessa, per l'insistenza di del Bosque su tre-centrali-tre (Xavi -immenso, l'uomo chiave di questo tiki-taka-, Xabi Alonso e Busquets) schierati in mezzo al campo. Tante, troppe palle giocate sui piedi e non nello spazio e tentativi di verticalizzazioni elementari, facilmente leggibili. Il coraggio di giocare con tre punte vere (quindi con Villa e Pedrito o Jesus Navas sui lati e un centravanti "fisico" in mezzo) Del Bosque non l'ha mai avuto, piegandosi alla certezza del possesso palla: il piede di Casillas lo ha salvato da una delle sconfitte più imbarazzanti di sempre (da non scordare il lusso di Fabregas in panchina). Epperò ha vinto e osservando la traiettoria di tutto il torneo è sicuramente giusto così.

CARLO PIZZIGONI

mercoledì 7 luglio 2010

Germania-Spagna 0-1: Puyol 28' s.t.


GERMANIA (4-4-2): Neuer; Lahm, Mertesacker, Friedrich, Boateng (dal 7’ s.t. Jansen); Trochowski (dal 17’ s.t. Kroos), Khedira (dal 35’ s.t. Gomez), Schweinsteiger, Podolski; Ozil, Klose. (Wiese, Butt, Badstuber, Marin, Aogo, Tasci, Kiessling, Cacau). All. Loew.

SPAGNA (4-1-4-1): Casillas; Sergio Ramos, Piquè, Puyol, Capdevila; Busquets; Iniesta, Xavi, Xabi Alonso (dal 47’ s.t. Marchena), Pedro (dal 40’ s.t. Silva); Villa (dal 36’ s.t. Fernando Torres).(Reina, Valdes, Albiol, Arbeloa, Martinez, Navas, Fabregas, Llorente). All. Del Bosque.

ARBITRO: Kassai (Ung).

NOTE: spettatori 60.960. Nessun cartellino. Angoli 6-6. Recupero 1’ p.t., 3’ s.t.


La squadra che ha mostrato le cose migliori in tutto il mondiale esce contro la squadra che ha invece praticato il miglior calcio in questa singola semifinale. La differenza? Maturità e qualità. Tutti sapevano, tedeschi compresi, che, almeno in questo momento, la Spagna poteva contare su un organico superiore; la forza della Germania doveva essere invece il collettivo, dimostratosi sicuramente superiore a quello spagnolo nelle gare precedenti. È mancata però la maturità per l’appunto, che verrà con l’esperienza: questa Germania è giovane ed è perciò preventivabile che fra due e quattro anni possa riproporre lo stesso calcio che ha sepolto sotto otto gol Inghilterra e Argentina (non roba da tutti i mondiali), ma con maggiore personalità e continuità anche nelle gare più calde.
La Spagna invece è stata la prima Spagna veramente all’altezza di tutto il mondiale. Lasciando da parte le discussioni oziose sul se sia bello o no il tipo di calcio che gioca (al sottoscritto quando fatto bene piace molto), e ricordando che giudizio estetico e giudizio tecnico vanno sempre rigorosamente separati, bisogna riconoscere che le Furie Rosse ieri hanno tenuto il campo benissimo, hanno fatto la partita minimizzando al contempo i rischi e hanno ottenuto un giusto premio per quanto visto nei novanta minuti. Hanno giocato da grande squadra. Se hanno anche giocato da squadra bella, lo lascio giudicare a voi.

Già in avvio si nota una Germania meno spigliata e una Spagna più comoda, ma gli iberici non eliminano il problema dei troppi giocatori bassi a inizio azione. Due se non tre che si avvicinano alla difesa, Piqué continua a non avere gli stessi margini di manovra che ha nel Barça per spingere in avanti la squadra. Però c’è una differenza rispetto alle scorse partite: la Spagna gioca con un attaccante in meno (Torres), e un centrocampista in più (Pedro).
Vedendo la formazione prima del fischio d’avvio, si pensa a un Pedro come al solito ala pura, magari per tenere basso Lahm. Il blaugrana invece parte sì a sinistra, ma presto comincia a scambiarsi con Iniesta, e comunque la sua interpretazione si avvicina più a quella di una mezzapunta, di un falso esterno, che di un’ala: più un Silva che un Pedro. Così se è vero che la Spagna mantiene troppi giocatori bassi a inizio azione, è anche vero che guadagna un appoggio in più fra le linee. Se a questo aggiungiamo che una delle cose meno convincenti della Germania in questo mondiale è stata proprio la distanza fra difesa e centrocampo, la Spagna trova la zona a partire dalla quale controllare il gioco.
Özil e Klose non pressano, attendono anche perché gli spagnoli sono in superiorità nella propria metacampo e quindi lì possono far girare il pallone; dove sbaglia la Germania è successivamente, nell’accorciare fra difesa e centrocampo, troppo titubante e passiva. Va detto comunque che questa chiave-tattica non produce occasioni in serie per la Spagna (una ghiottissima per Villa a tu per tu con Neuer al 5’, che nasce proprio dalla situazione esposta: Pedro riceve fra le linee e verticalizza per Villa, che a quel punto in rapidità è avvantaggiato rispetto a Friedrich e Mertesacker; poi c’è anche un colpo di testa sottomisura di Puyol su schema da calcio d’angolo all’11’): i troppi giocatori bassi a inizio azione significano meno opzioni di finalizzazione nei pressi dell’area avversaria, logico; però alla Spagna è consentito di “riposare” sulla trequarti, e da lì, a partire dalla superiorità nel centro della metacampo, creare gli spazi per mandare avanti i terzini, salire in blocco e poi dalle mezzepunte tornare a servire il “trivote” Xavi-Busquets e Xabi Alonso, che con la Germania che fatica ad accorciare stavolta può agire maggiormente fronte alla porta, organizzare e e dettare i tempi. A quel punto la Germania è troppo schiacciata dietro, e la Spagna favorita anche nel recuperare il pallone subito, lontano dalla porta di Casillas. Sempre ben schierate a palla persa le Furie.

Una Germania intimorita e irriconoscibile per quanto risulta irrigidita. In questo mondiale il valore aggiunto dei tedeschi è sempre risieduto nella capacità di aprire spazi in fase offensiva con una costante mobilità dal centrocampo, tagli, controtagli e sovrapposizioni che coinvolgevano tutti i giocatori.
Due esterni molto alti a centrocampo, quattro giocatori minimo oltre la linea della palla, i due centrocampisti centrali mai sulla stessa linea in fase di possesso: Schweinsteiger iniziava l’azione davanti alla difesa, mentre Khedira attaccava gli spazi aperti dai movimenti incontro al portatore compiuti a turno dai due attaccanti. Poi c’era Özil che spesso si defilava a destra, chiamava fuori un centrale avversario e da lì creava superiorità numerica con le sovrapposizioni di Lahm e i magnifici tempi di inserimento di Müller. Già, Thomas Müller: sicuramente un’assenza pesante, ma non si può dare la colpa solo a Trochowski (ma comunque, perché non Marko Marin? Posto che già Trochowki non ha i movimenti di Müller, perché non giocarti allora il dribblatore del Werder?).
Tutta la Germania di questa semifinale ha ripiegato su un 4-4-2 troppo banalizzato, del tutto privo di quella dinamica spettacolare delle precedenti partite, coi centrocampisti centrali bloccati, probabilmente per non restare scoperti a palla persa, e l’azione troppo lineare e accidentata. Era piaciuta della Germania la capacità di sapersi creare da sola gli spazi, collettivamente, come nessun’altra squadra in questo mondiale: in quest’occasione invece è dipesa totalmente da azioni isolate, e da qualche palla persa pericolosamente dalla Spagna.
Palle perse peraltro rarissime, ed è qui che gli uomini di Del Bosque hanno cominciato a vincere la partita: controllando dall’inizio alla fine le zone di campo dove perdevano il pallone, controllando costantemente i ritmi, non rischiando mai nel mentre che cercavano di avvicinarsi a Neuer. L’uso sapiente della sfera da parte spagnola ha quasi sempre costretto i tedeschi a ricominciare dalle retrovie la loro azione, con Mertesacker e Friedrich troppo macchinosi nell’avviare l’azione, peraltro prontamente ostacolati dai movimenti ad accorciare sia di Villa che del centrocampista che a turno (Xabi Alonso o Xavi) si alzava per pressare. La Germania ha scelto consapevolmente di giocare d’attesa nella propria metacampo, e ci stava (anche perché è meglio non concedere la profondità a Villa contro centrali con quelle caratteristiche), ma non è mai riuscita a passare allla seconda parte del piano, a rilanciare l’azione.

Rispetto alle gare precedenti, quello della Spagna non è stato un possesso-palla impotente, ma un mezzo per controllare la gara e porre le premesse anche dell’equilibrio difensivo. Quello che dovrebbe sempre perseguire questa nazionale. Comunque, è una Spagna che continua a difettare di presenza (che è diversa dal “peso”) negli ultimi metri. Xavi, Xabi e Busquets giocano di fronte, sì, Xabi può esibire anche i suoi strepitosi cambi di gioco, ma quando Ramos li raccoglie dalla fascia opposta i suoi cross trovano Villa e a malapena un altro cristiano in area avversaria. Anche per Xavi è sicuramente un bene poter vedere subito davanti a sè le opportunità di verticalizzazione, però se ne fa poco se l’opzione in profondità è solo una ed è leggibile dall’avversario.
È in ogni caso un primo tempo nel quale a predominare è il rispetto reciproco, naturale in una semifinale mondiale: se per la Germania la prima preoccupazione è non concedere la profondità, per la Spagna è comunque assicurare al massimo tutti i passaggi, evitare perdite, finalizzare con tiri da lontano se l’alternativa è il rischio di un contropiede. Uno riesce a costruirlo comunque la Germania, al 31’, con un sinistro di Trochowski (troppo spazio a disposizione, i centrocampisti spagnoli ripiegano eccessivamente dentro l’area di rigore).
Germania leggermente più aggressiva nel finale del primo tempo, e nel recupero c’è un episodio sul quale i tedeschi possono recriminare: Puyol fallisce l’anticipo su Klose, lascia un buco centralmente, lì parte Özil, che non controlla bene e subisce il ritorno di Ramos. Ritorno che pare falloso, ma l’arbitro non lo sanziona: il fallo sarebbe fuori area, ma nell’interpretazione più rigorosa (a seconda di come si valuta la posizione di Puyol, in procinto di rientrare) sarebbe anche chiara occasione da gol e quindi espulsione per Ramos.

Il meglio la Spagna lo offre nella ripresa: stesso principio, avanzare minimizzando i rischi, ma più intensità, più aggressività. La chiave è sempre Iniesta e Pedro tra le linee, ma ora c’è un maggior accompagnamento delle mezzeali Xabi e Xavi, che con più convinzione si aggiungono alla fase conclusiva o di rifinitura, aumentando i tentativi dal limite dell’area. La Spagna rimane poi molto decisa e puntuale nel pressing alto, e per i primi 20 minuti la Germania fatica ad uscire dalla metacampo.
Due tentativi dal limite firmati Xabi Alonso e Villa, poi un minuto di grande calcio, fra il 57’ e il 58’, che riassume questa maggiore intensità spagnola: Iniesta libera Capdevila in sovrapposizione, al centro per Xabi Alonso, scarico su Pedro, destro violento non trattenuto da Neuer, ancora lì, palla recuperata dalla Spagna, numero di Xabi Alonso che si divincola nello stretto, fa scorrere con la suola e lancia Iniesta sul fondo, pase de la muerte ma clamoroso ritardo di Villa per il tap-in a porta vuota. Il minuto non finisce che subito Pedro ci riprova dal limite dell’area, stavolta di sinistro e di poco a lato. Germania in apnea.
Trochowski ha giocato anche troppo, dentro Kroos al 62’, e proprio il talentuoso Toni al 68’ impegna in una difficile respinta Casillas, al termine della prima grande azione manovrata della Germania, l’unica azione “da Germania” della serata, superiorità sulla fascia sinistra propiziata anche dal positivo ingresso di Jansen, sicuramente più a suo agio di un Boateng parso un po’ goffo nei panni del terzino sinistro.
Ma tocca alla Spagna, dopo aver reclamato un rigore su Ramos (fa bene l’arbitro a lasciar andare), passare, e lo fa nella maniera più inattesa: su calcio d’angolo, contro gli armadi tedeschi. Anche gli armadi però devono marcare, e Puyol non se lo prende nessuno.

La gestione del vantaggio da parte spagnola almeno nell’immediato non è molto convincente: subito a trincerarsi in area di rigore, niente melina, segno di nervosismo. Löw butta dentro Mario Gómez, alla ricerca del gioco aereo, levando Khedira, arretrando in mediana Kroos e spostando Özil a destra (in realtà a tuttocampo). Ma Del Bosque risponde bene, almeno con le prime due sostituzioni: giusto togliere Villa, che non ce la fa più e concede ormai tutta la metacampo ai tedeschi per rilanciare, Torres può allungare la squadra; bene anche Silva per Pedro.
Pedro che all’81’ si segnala per un contropiede indegnamente sprecato: inizialmente solo nella prateria, poi due contro un solo difensore tedesco, non serve Torres e si perde in finte incomprensibili. Non un problema di egoismo per chi conosce la generosità di un ragazzo che è emerso nel grande calcio proprio per la disponibilità ad aiutare le vecchiette ad attraversare la strada. È che Pedrito è fatto proprio così: quando ha molto tempo per pensare col pallone tra i piedi, può capitare che pensi mille cose e finisca col non eseguirne nessuna, che tutto quel frullare di gambe gli faccia smaltire l’orientamento. Comunque una splendida partita per questo Pedro in versione “David Silva”, uno dei fattori tattici decisivi della gara.
David Silva, quello vero, aiuta nel finale, assieme alle gambe fresche di Torres e ad Iniesta, a congelare il pallone e a tenere lontano il pericolo. Iniesta è il migliore in campo (da segnalare anche Xabi Alonso e Piqué-Puyol): lo avevamo già notato contro il Paraguay, Andrés è uno dei pochi giocatori in circolazione in grado di sbilanciare una gara anche quando non sono al 100% della condizione atletica.
L’ultimo cambio di Del Bosque, già visto contro il Portogallo, è inquietante: Marchena per Xabi Alonso, in pieno recupero. Una mossa perfetta per azzoppare la tua squadra: soltanto perché pensi di perdere quel pochettino di tempo, rischi di giocarti gli eventuali supplementari con il centrocampo completamente snaturato. Forse Xabi Alonso non è in grado di giocare quell’ultimo minuto di recupero stringendo i denti e andando a difendere? Marchena ti garantisce di più? Follia, ma comunque indolore.

VALENTINO TOLA

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Nessuna sorpresa: ha vinto la squadra migliore. Tra campo e panchina difficile non notare una sostanziale differenza fra le due contendenti alla finale Mondiale. La sconfitta non leva nulla allo straordinario torneo di Joachim Loew, che ha dovuto giocare la sfida più delicata anche senza Mueller (assenza pesantissima). Il tecnico tedesco ha allenato proponendo idee fino alla fine, inserendo Trochowski poi la classe di Toni Kroos,partendo con Boateng per poi surrogarlo con Jansen, ma nemmeno la solita ottima partita di Schweinsteiger (che stagione favolosa!) è bastata per avere ragione di una squadra le cui individualità sono di altro livello. Epperò Del Bosque (che ancora non mi persuade con quella formazione con troppi centrocampisti centrali e senza le tre punte vere davanti con Villa e Pedro ai lati) ci aggiunge stavolta qualcosa che risulta alla fine essere decisivo: una pressione medio alta che dà molto fastidio a una squadra che sulla linea difensiva ha trattatori di palla modesti come Friedrich, Lahm e Boateng. L'azione non parte mai fluida e le giocate a uno-due tocchi di Schweinsteiger (quando viene innescato nel giro-palla) non possiedono gli automatismi di un impianto di squadra di club (inevitabilmente). La Germania riesce a difendersi bene con il 4411, Ozil si però accende troppo poco spesso e offensivamente i tedeschi creano quasi nulla (Puyol e Piqué due giganti, altra enorme differenza individuale tra le due squadre). Curioso poi che la partita venga decisa da un calcio piazzato... ma a favore della Spagna, con i "cristoni" teutonici smarriti nella difesa a zona sul calcio d'angolo che si perde Carles Puyol. Del Bosque, dopo il disastro turco (al Besiktas) e l'inattività forzata, dimostra di essere un grande gestore di campioni, anche se la radice del calcio delle Furie Rosse è marcatamente Blau-Grana...

CARLO PIZZIGONI

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Quest’anno, non si sa bene per quale buona coincidenza astrale, abbiamo azzeccato un po’ di cose che riguardano questo Mondiale. Prima dell’inizio, una sensazione si impadronì della mente, se così vogliamo chiamarla, che mi porto appresso: questo Mondiale sarà preda dei grandi centrocampisti, per la prima volta in prima pagina rispetto ai grandi attaccanti. E se andiamo a vedere lo specchio più semplice per decrittare una competizione,la classifica dei cannonieri, incontriamo la nostra profezia. Capocannoniere con Villa Sneijder con 5 gol, al secondo posto Muller con 4, con 3 reti Landon Donovan. Al di là delle reti, l’importanza dei centrocampisti, anzi ad essere chiari delle vecchie mezzeali, in questo Mondiale è evidente. In finale sono arrivate le due squadre che hanno il miglior reparto di mezzeali del lotto. L’Olanda ha l’uomo più in forma del torneo, Sneijder, accompagnato da un ex attaccante perfetto nel ruolo di mezzala esterna, Kuyt, mentre la Spagna ha al massimo della maturità la coppia di mezzeali più forti del pianeta, Xavi e Iniesta. Questo tipo di calciatori è esaltato dal modulo principe del torneo sudafricano. Questo benedetto-maledetto 4-2-3-1 può essere una iattura come per Italia che non aveva gli uomini per adottare quel modulo, la Francia che ce li aveva, ma erano fuori forma, l’Argentina che non poteva giocare con quel modulo senza far girare vorticosamente la palla, il Brasile con gli atleti ormai logori. Spagna e Olanda invece hanno esaltato il modulo con cui giocano, da adottare solo se hai una coppia di uomini dietro la prima punta davvero fenomenale.

JVAN SICA

martedì 6 luglio 2010

Uruguay-Olanda 2-3: Van Bronckhorst (O) al 18’, Forlan (U) al 41’ p.t.; Sneijder (O) al 25’, Robben (O) al 27’, M. Pereira (U) al 46’ s.t.


URUGUAY (4-4-2): Muslera; M. Pereira, Victorino, Godin, Caceres; Perez, Arevalo Rios, Gargano, A. Pereira (dal 33’ s.t. Abreu); Cavani, Forlan (dal 36’ s.t. S. Fernandez). (Castillo, Silva, Lugano, Eguren, Gonzalez, Scotti, A. Fernandez). All. Tabarez.

OLANDA (4-2-3-1): Stekelenburg; Boulahrouz, Heitinga, Mathijsen, Van Bronckhorst; Van Bommel, De Zeeuw (dal 1’ s.t. Van der Vaart); Robben (dal 44’ s.t. Elia), Sneijder, Kuyt; Van Persie. (Vorm, Boschker, Ooijer, Braafheid, Schaars, Afellay, Babel, Huntelaar). All. Van Marwijk.

ARBITRO: Irmatov (Uzb).

NOTE: spettatori 62.479. Ammoniti Maxi Pereira, Caceres, Boulahrouz, Sneijder. Recupero: 2’ p.t., 3’ s.t.


La prima finalista è l’Olanda ed è anche giusto così per dare un tono un po’ più serio a questo dimesso Mondiale 2010, che perlomeno vedrà in finale due Nazionali con un vero concetto di squadra e che mostrano diverse concezioni di calcio in fase di possano: l’Olanda cinica e con qualche fiammata se la vedrà allora con la Germania tutta talento e solidità oppure contro la Spagna del tiqui-taca, concetto forse un po’ troppo estremizzato da Del Bosque rispetto ad Aragones (che oltre al grande possesso voleva anche qualche scarico sulle fasce che in questa Spagna finora non s’è visto).

Esce invece l’Uruguay, la cui identità è stata piuttosto misteriosa: difesa poco tecnica con tanti passaggi a vuoto, centrocampo di onesti pedalatori ma nulla più e attacco che punta tutto sul talento e le giocate degli ottimi Forlan e Suarez, i veri protagonisti della squadra. Un Uruguay che aveva ottenuto lo spareggio contro la Costa Rica in modo quantomeno fortunoso (sfruttando l’incredibile suicidio dell’Ecuador) e che a questi Mondiali non ha mai dimostrato nulla di particolare, non convincendo in nessuna delle sue esibizioni ma arrivando incredibilmente (e molto fortunosamente) alle semifinali, per giunta con un tecnico come Tabarez che ha cambiato più moduli di gioco che biancheria intima in questo mese, evidenziando come un vero piano non ci fosse dietro la “cavalcata” uruguaiana. La squadra sudamericana arriva ad una inopinata semifinale e esce da questa pure con onore (a parte le sceneggiate viste per un minuto dopo il fischio finale dell’arbitro, per fortuna sedate subito), ma il tutto è dovuto più a qualche mese di grazia totale piuttosto che a qualche reale merito tecnico o tattico (escludendo ovviamente i due grandi attaccanti, loro sì molto meritevoli).

Non è stata una grande semifinale sul piano tecnico, ma di fatto nessuna delle sei partite dell’Olanda ha avuto un grande livello e una grande pulizia tecnica: la squadra di Van Marwijk arriva in finale grazie ad un calcio cinico ma raramente brillante, più teso a trovare la fiammata vincente che un gioco di qualità. Si attende qualcosa di realmente brillante dagli Orange ma di fatto la versione più convincente è stata quella di questo secondo tempo, quando la squadra ha alzato il ritmo, ha provato a forzare i tempi e a vincerla di forza, un tentativo che ha funzionato e ha fatto sì che l’Olanda meriti questa finale.

La partita si accende un po’ nella ripresa, dopo un primo tempo di bassissimo spessore tecnico e tattico. L’Olanda parte in maniera soft, faticando a prendere in mano il gioco ma trovando comunque il vantaggio con la gran fucilata di Giovanni Van Bronckhorst diretta all’incrocio dei pali. Sembra l’episodio che può mettere in discesa il match, ma gli Orange deludono totalmente nella gestione del vantaggio, andando soltanto ad abbassarsi provando ad addormentare la partita e non provando a chiudere i conti, puntando forse eccessivamente sul contropiede vincente anche se la squadra non riesce proprio mai a ripartire con pericolosità. In questo modo l’Uruguay ha continuità di gioco, mostrando i propri limiti tecnici e nulla di realmente interessante ma trovando comunque un gran tiro di Forlan che sfrutta l’effetto Jabulani e batte uno Stekelenburg piuttosto rivedibile (Jabulani o non Jabulani, questo è un errore grave). A corollario del primo tempo c’è la tremenda scarpata rifilata con violenza da Caceres e De Zeeuw nel suo tentativo di rovesciata: in questi Mondiali si son viste tante espulsioni ridicole (incredibile quella di Gourcuff), ma Caceres se la cava con un giallo. Si può discutere sulla reale intenzionalità, ma questo è chiaramente un cartellino rosso: se non ti rendi conto che non puoi andare in rovesciata con quella violenza quando c’è un avversario ad un metro, non puoi stare su un terreno di calcio. Davvero increscioso.

Proprio De Zeeuw per questo colpo deve uscire all’intervallo (sospetta frattura della mandibola) ed è questa la scossa per l’Olanda, perché entra Van der Vaart in mediana e la squadra gioca in modo più offensivo, provando maggiormente a sfondare, con tutti gli elementi offensivi più attivi. Il più deludente tra i quattro elementi offensivi titolari dell’Olanda fin qui era stato Robin Van Persie, che però in questo secondo tempo sembra darsi una piccola svegliata, giocando i 45 minuti migliori dei suoi Mondiali: la punta diventa molto più attivo, molto più presente, capace di regalare un appoggio ad una squadra che gioca più veloce, che spinge con più coraggio e (pur non trovando particolare brillantezza) fa sfiancare l’Uruguay. Questo anche perché la squadra di Tabarez prova a rispondere con un grande pressing, portando due elementi costantemente sul portatore di palla, un lavoro che funziona anche molto bene nei primi minuti ma che porta il centrocampo a faticare sul piano fisico. Per la prima volta nel Mondiale la squadra di Tabarez perde dinamismo e per questo la pressione dell’Olanda diventa forte fino al gol piuttosto fortunoso realizzato da Sneijder, che sfrutta una leggera deviazione, un Muslera (ancora mai del tutto convincente) lento come un ippopotamo nel buttarsi a terra e il velo di Van Persie, il quale era anche in leggera posizione di fuorigioco: è però un fuorigioco di non più di 10 cm, una segnalazione impossibile per il guardalinee, non certo un tipo di fuorigioco per cui scandalizzarsi (come qualche media italiano ha fatto in maniera comica). Per queste situazioni decise da pochi centimetri bisogna avere un po’ di apertura mentale e comprendere l’errore, oppure proprio non considerarlo tale per i limiti dell’occhio umano. La reazione dell’Uruguay viene subito soffocata poi dall’ottima incornata di Arjen Robben, in una serata strana perché sbaglia tutto con i piedi ma segna un gran gol di testa: se Sneijder e Robben segnano due gol di testa in due partite, forse c’è qualche segnale positivo anche dal fato.

L’Uruguay si risveglia nel finale accendendo il recupero con il gol del 2-3, ma il risultato non cambia e ad avanzare è l’Olanda, alla sua terza finale della storia: per la prima volta però gli Orange non troveranno i padroni di casa (come la Germania Ovest nel ’74 o l’Argentina nel ’78), visto che per la prima volta una Nazionale europea riuscirà a vincere un Mondiale organizzare fuori dal continente europeo. Ci sarà una finale tra novità assolute (ovvero tra squadra mai salite sul tetto del Mondo) contro la Spagna o gli Orange si ritroveranno di fronte nuovamente la Germania (stavolta unita), alla caccia del quarto titolo? Si potranno fare mille discorsi sul gioco dell’Olanda che non decolla, ma questa è una Nazionale che ha vinto 17 delle ultime 18 partite ufficiali giocate (in mezzo solo la sfida contro una grandissima Russia, persa solo ai tempi supplementari contro il connazionale Hiddink) e allora non è il caso di avanzare critiche o porre punti interrogativi superflui (anche se si è molto amanti dell’estetica calcistica, come il sottoscritto), perché chiaramente Van Marwijk ha puntato tutto sul cinismo e finora le grandi individualità (Sneijder e Robben su tutti) gli hanno dato ragione, raggiungendo un grandissimo traguardo come la finale dei Mondiali.

SILVIO DI FEDE

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L'Uruguay è fuori, viva l'Uruguay. Per me non ci sono dubbi: è la Celeste la squadra che più emozioni ha saputo regalare in questo Mondiale scialbo e finora privo di pagine da leggenda del calcio, se si esclude ovviamente l'ultimo minuto della sfida tra gli uruguagi e il Ghana. Al termine della partita contro l'Olanda, la squadra di Tabarez merita solo applausi per come ha saputo tenere il campo al cospetto di avversari superiori di almeno una categoria, e per di più senza la colonna difensiva e morale (Lugano), lo stantuffo di fascia sinistra (Fucile), il folletto imprevedibile dell'attacco (Suarez) e l'unico centrocampista dotato di fantasia e inventiva (Lodeiro). Assenze del genere avrebbero steso un toro, invece i sudamericani non sono scesi in campo rassegnati all'inevitabile, ma hanno lottato fino all'ultimo istante regalando al pubblico una semifinale palpitante ed emotivamente coinvolgente, anche se piuttosto deficitaria dal punto di vista tecnico-tattico.
Interessanti le scelte di Tabarez: il Maestro non trova garanzie in Abreu e abdica al tridente che lo ha portato nel club delle magnifiche quattro, dunque piazza Gargano al fianco di Arevalo Rios, allarga la posizione di Perez e Alvaro Pereira e propone in avanti il tandem Cavani-Forlan, col biondo Diego a svariare dietro l'attaccante del Palermo; Van Marwijk invece non cambia assetto e si limita a sostituire gli squalificati Van de Wiel e De Jong con Boulahrouz e De Zeeuw. La partita, inizialmente lenta e bloccata anche per l'ottimo pressing esercitato dall'Uruguay a partire dai due generosissimi ataccanti, si sblocca grazie a un siluro di Van Bronckhorst; l'Olanda sembrerebbe avvantaggiarsi, tuttavia la Celeste non si scopre attaccando scriteriatamente e non porge il fianco al contropiede orange. Creano poco, i sudamericani, però mantengono le giuste distanze e aspettano con pazienza certosina l'episodio che sovente, sotto forma di giocata estemporanea, ha risolto le loro precedenti partite. Ed ecco che al 41' Forlan prende palla, si beve il proprio marcatore con una finta e spara un sinistro, invero centrale, sul quale Stekelenburg è poco reattivo, anche se va detto che il cambio di direzione del pallone (il solito effetto-Jabulani) è davvero evidente. La ripresa vede un Uruguay che gioca meglio degli orange, con maggior personalità e frescheza fisica rispetto al primo tempo; la Celeste sfiora il gol con Alvaro Pereira (pallonetto salvato sulla linea da Van Bronckhorst), come sempre bravissimo, e si fa vedere con una punizione di Forlan, ma finisce per cadere nel suo momento migliore. Il gol di Sneijder, rocambolesco e viziato da un fuorigioco attivo di Van Persie, taglia le gambe agli uomini di Tabarez , definitivamente seppelliti dalla rete di testa di Robben dopo due minuti. L'Olanda stavolta riesce a congelare la partita, anche se il gol di Maxi Pereira a tempo scaduto rischia di complicare le cose: l'Uruguay adotta lo schema "in the box" cercando la testa del Loco Abreu, trova un paio di mischie da brivido ma non riesce a segnare il pari. La squadra di Tabarez merita comunque molti elogi: non sarà esteticamente pregevole e non giocherà secondo dettami tattici innovativi, però sa far bene le poche cose che il suo allenatore richiede (fase difensiva - tolto il Caceres inguardabile di stasera -, aggressività sulle secondo palle, dialogo fitto tra i talentuosi attaccanti) ed è stata sicuramente la miglior formazione di questo Mondiale in rapporto alla qualità complessiva della rosa. L'Olanda continua a non convincere i media nostrani, che evidentemente quando vedono arancione pensano solo al calcio totale; gli orange sono un inno all'efficacia e sanno andare in rete non appena spingono di più, non perdono da un'era geologica fa e sono sorretti da un'eccellente condizione psicofisica(nonché da una buona dose di fortuna): che sia la volta buona per i tulipani?

EDOARDO MOLINELLI


Una partita piena di emozioni, fino alla fine, anche se dai contenuti tecnici e tattici modesti, come previsto. Certo ha vinto la squadra coi miglior giocatori. E loro hanno fatto decisamente la differenza, nonostante il fenomenale Forlan (che ha giocato pure da infortunato), mio personale MVP di questo Mondiale. L'Uruguay ha trovato un pertugio nel tabellone e si è inserito, con merito, anche se ha rischiato diverse volte di uscire (clamorosa la partita col Ghana): arrivare fin qui è davvero grasso che cola, vista la modesta proposta di calcio della squadra di Tabarez. L'Olanda ha un potenziale offensivo forse superiore anche a quello degli spagnoli, tuttavia non mi trovano d'accordo le analisi che leggo in giro sul mutamento di atteggiamento rispetto ai Tulipani degli anni '70. La squadra di van Marwijk non è una squadra cinica, pragmatica che mira solo al risultato: se così fosse avrebbe una struttura difensiva che invece non ha nemmeno per sogno. Sicuro, difende con molti uomini che tengono bene la posizione, ma l'analisi tattica della fase difensiva si ferma qui, dato che nemmeno la transizione mi pare risponda a principi chiari. Levato il Brasile, ha avuto un calendario comodo che ha sfruttato benissimo, e quasi mai brillando. Ma i Robben e gli Sneijder non ce li ha nessuno...

CARLO PIZZIGONI

sabato 3 luglio 2010

Paraguay-Spagna 0-1: Villa 83'.


PARAGUAY (4-1-3-2): Villar; Veron, Da Silva, Alcaraz, Morel; V. Caceres (dal 40’ s.t. Barrios); E. Barreto (dal 18’ s.t. Vera), Riveros, Santana; Cardozo, Valdez (dal 28’ s.t. Santa Cruz). (D. Barreto, Bobadilla, Bonet, J. Caceres, Caniza, Ortigoza, Torres, Benitez, Gamarra). All. Martino.

SPAGNA (4-1-3-2): Casillas; Sergio Ramos, Piqué, Puyol (dal 40’ s.t. Marchena) , Capdevila; Busquets; Xavi, Xabi Alonso (dal 30’ s.t. Pedro), Iniesta; Fernando Torres (dal 10’ s.t. Fabregas), Villa. (Reina, Bonet, Arbeloa, Albiol, Martinez, Navas, Silva, Mata, Llorente). All. Del Bosque.

ARBITRO: Batres (Gua).

NOTE: spettatori 55.359. Ammoniti Piqué, Alcaraz, V. Caceres, Morel, Santana. Recupero 1’ p.t., 3’ s.t.


La Spagna eguaglia come minimo il suo miglior risultato storico, il quarto posto del 1950, ma non prima di una sofferenza atroce e di escursioni nel terreno dell’irrazionale. Nel giro di un minuto un rigore prima per il Paraguay e poi per la Spagna, entrambi falliti da Cardozo e Xabi Alonso. Ci pensa poi l’arbitro Batres a infiocchettare il tutto con dettagli visionari.
I rigori c’erano entrambi, ma a Xabi Alonso lo fa ripetere perché mezzo giocatore passa la lunetta dell’area di rigore, invece quello di Cardozo non si ripete nonostante alcuni giocatori, tutti spagnoli, situati quasi sulla stessa linea del tiratore paraguaiano al momento della battuta. Aggiungeteci poi che sul rigore spagnolo Alcaraz andava espulso (chiara occasione da gol) e che ci stava anche un nuovo rigore su Cesc al momento della ribattuta di Villar, e avrete un bel quadro surrealista.
La partita in generale è stata ancora una volta giocata male, decisamente male, dalla Spagna, squadra che avanza soprattutto grazie all’enorme qualità e a una certa personalità, un “saper competere”, acquisito dai propri giocatori, oltre a quel pizzico di fortuna indispensabile. Ingredienti finora sufficienti per andare oltre la realtà di un undici disegnato male dall’allenatore.
Ora la Germania, il rullo compressore: potrebbe far comodo alla Spagna non partire per una volta col ruolo di favorita, ed oltre a questo ha tutte le possibilità di risultare indigesta alla Germania. Tralasciando il miglior organico delle quattro semifinaliste, ha le carte in regola per addormentare il gioco a centrocampo e costringere i tedeschi, non irreprensibili in fase difensiva, a ritmi che non gradiscono. Lì, nel mezzo, starà la chiave della partita, sempre che Del Bosque se ne ricordi…
Il Paraguay esce a testa altissima, affermando la miglior organizzazione difensiva di tutto il mondiale. Non solo un fatto collettivo, è un piacere pure vedere difensori come Alcaraz o Da Silva così abili nel gestire tutti i fondamentali richiesti al difensore nelle varie situazioni, dall’anticipo alla copertura, dal gioco aereo alla chiusura laterale, dall’uno contro uno al disimpegno. È ormai una scuola questa dei difensori paraguaiani, consacrata con tutti gli onori. Anche questo è bel calcio.

Cambia la formazione (fascia destra tutta nuova, il rude Verón al posto di Bonet e il più tecnico Barreto preferito al più dinamico Vera; Santana altra novità come esterno sinistro, poi a sorpresa in attacco sia Santa Cruz che Barrios in panchina), ma i principi del gioco di Martino rimangono gli stessi. Un 4-4-2 con a centrocampo esterni non di ruolo, più propensi a stringere al centro ma comunque sempre pronti a fornire il raddoppio al terzino.
Tutto è sempre e comunque basato sul recupero del pallone e la ripartenza: può sembrare un paradosso, ma per come è congegnato il Paraguay si trova meglio con una Spagna, che gli dà proprio i punti di riferimento tattici che desidera, piuttosto che con un Giappone anch’esso portato a lasciare l’iniziativa all’avversario (infatti agli ottavi ne è scaturita la partita più bloccata di tutto il mondiale). Poi l’altezza del baricentro, la zona dove si sceglie di recuperare il pallone può variare. In questo caso il Paraguay ha scelto di pressare alto, già quando Piqué e Puyol si allargano per ricevere da Casillas. E lo ha fatto benone, conseguendo il dominio territoriale nei primi 20 minuti. Poi una volta in possesso del pallone, il Paraguay opta per il gioco diretto, attaccare le seconde palle, con Cardozo che fa da torre e Valdez che attacca gli spazi. La Spagna soffre perché più di una volta piazzata male in difesa, con un Puyol mediocre, anticipato spesso da Valdéz (il blaugrana poi è quasi dilettantesco quando cede al suo rivale l’interno per rientrare sul destro in un contropiede nel finale del primo tempo), e il Paraguay fa quasi sua la partita sfruttando palle alte e calci da fermo, vedi il gol annullato nel primo tempo a Valdez per un fuorigioco attivo di Cardozo, o anche lo stesso goffo fallo da rigore commesso da Piqué.
Nel finale, nel tentativo di acciuffare il pareggio, Martino si gioca anche Santa Cruz e Barrios, che quasi sfiorano il gol: sfarfalla e salva capra e cavoli lo stesso Casillas, prima titubante sul destro di Barrios poi provvidenziale sulla respinta di Santa Cruz.

Ma per individuare le sofferenze della Spagna bisogna sempre partire dalla sua fase di possesso. È quando ha il pallone che la Spagna deve costruire i presupposti del suo equilibrio, il resto è in buona parte una conseguenza.
E qui, sapendo di essere ripetitivo, le cose continuano a non funzionare e il centrocampo ad avere poco senso. La Spagna ha sempre sofferto a superare la prima linea avversaria, durante tutta la gara, sia quando il Paraguay pressava alto (e la Spagna colpevolmente non cercava mai il lancio alle spalle della difesa per Torres e Villa) sia quando ripiegava per la stanchezza come nella ripresa. Questo evidenzia un difetto intrinseco dalla Spagna, prima ancora del merito dell’avversario.
Al solito è capitato di vedere Piqué (sì, proprio quel Piqué che scarta i portieri con una ruleta) imbarazzato col pallone tra i piedi, più di una volta: già ci sono gli avversari, se poi ci si mettono Busquets e Xabi Alonso subito davanti, alla stessa altezza, a ostruirgli le linee di passaggio, l’azione della Spagna fa davvero fatica a progredire e rimane lì con millecinquecento tocchi orizzontali. Non si distende bene la squadra, e quando la palla filtra nella metacampo avversaria nove volte su dieci le speranze sono tutte riposte negli uno contro uno. La palla arriva troppo lenta alle corsie laterali, gli esterni devono portarla e i tempi della sovrapposizione non maturano mai.
Raccontare una partita della Spagna significa sempre ricostruire un’infinità di aggiustamenti in corsa dal centrocampo in su. Si è partiti con un 4-4-2 con Iniesta a sinistra e Xavi falso esterno a destra (orrore), e Villa riportato vicino a Torres; poi dopo dieci minuti si è tornati al 4-2-1-3 con Villa di nuovo largo a sinistra, Iniesta falsa ala destra e Xavi trequartista (orrore); infine con l’ingresso di Cesc per Torres nella ripresa si è passati a un 4-2-3-1 con Xavi, Cesc e Iniesta a fluttuare sulla trequarti, per concludere con un 4-3-3 l’ingresso di Pedro per Xabi Alonso, che ha portato Iniesta di nuovo falsa ala destra e Xavi e Cesc mezzeali.
Tanti spostamenti ma la sostanza rimane la stessa: questa squadra ha bisogno di più punti d’appoggio e linee di passaggio in zone avanzate, non per far scrivere ai giornali “Qué viva el tikitaka”, ma per una questione di equilibrio, per guadagnare campo e sicurezza. Gli unici momenti in cui Xavi (colui che dovrebbe dettare sempre i tempi e invece risulta relegato ad apparizioni sporadiche) si è trovato comodo son stati quelli in cui Iniesta è riuscito a liberarsi tra le linee e a offrirgli la sponda per vedere la giocata di fronte. Se oltre ad Iniesta a spostarsi tra le linee ci fosse Silva (desaparecido: il lebbroso nella Spagna del “Busquets e altri 10” prima era Cesc, ora è lui), Xavi avrebbe il doppio di situazioni favorevoli per sviluppare il proprio gioco e risulterebbe ulteriormente potenziato. Invece ora è l’esatto contrario, con il doble pivote e le poche linee di passaggio avanzate, è lui che si fa attirare indietro, e ciò non fa che appesantire la manovra.
Resta questo, l’inizio del gioco troppo prolisso, il problema vero della Spagna, quello di Torres (giocatore che per quanto in scarsa forma resta, considerato il contesto, tatticamente più utile del pur validissimo Llorente) a mio avviso è fumo negli occhi mediatico, anche se non si deve sottovalutare la dinamica pericolosa in cui sta entrando El Niño: un circolo vizioso, perché partita dopo partita sente sempre più una fiducia a termine (prima ti sostituisco dopo un’ora, poi dopo 50 minuti, la prossima volta a fine primo tempo, poi chissà) che lo fa giocare sempre meno tranquillo.
Sull’unica azione buona a difesa schierata arriva comunque il gol: Iniesta che parte da sinistra, salta l’uomo non in dribbling, ma dando palla dietro a Cesc e seguendo lo scambio di questi con Xavi (gran palla fatta filtrare spalle alla porta) per poi smarcarsi senza palla tra le linee, da lì saltare secco un paraguaiano in uscita dalla difesa e poi attendere con grande classe il momento giusto per liberare Pedro al tiro che finisce sul palo ma permette comunque a Villa di ribadire in rete, non prima di un altro avventuroso palo, addirittura doppio. Qui c’è tutto lo spessore di Iniesta: anche non avendo ancora recuperato il cambio di ritmo dopo la finale col Manchester United (quando un estasiato Rooney addirittura gli diede del miglior giocatore del mondo), resta un ingegno superiore, un giocatore determinante come pochi altri. La stampella, lui e gli altri talenti, di una Spagna ancora irrisolta.

VALENTINO TOLA


Spagna avanti come da pronostico e status (pochi dubbi che abbia la miglior rosa del Mondiale), tuttavia non ci si aspettavano tutte queste sofferenze. Il Paraguay difende bene ma la squadra di del Bosque continua a complicarsi la vita non riuscendo a trovare un piano chiaro per entrare nel bunker disegnato da Martino. Non solo, la Spagna ha lasciato anche tante occasioni da rete alla squadra guarani e se Oscar Cardozo non avesse calciato male il rigore del possibile vantaggio non so proprio come gli iberici avrebbero potuto rimontare. Il possesso palla non è mai efficace negli ultimi sedici metri, la Spagna tira pericolosamente in porta troppo poco: gli unici sbocchi credibili rimangono gli spunti di Villa, che parte da sinistra quasi sempre ormai, e le intuizioni di un fenomeno come Iniesta. Un po' poco, specie se si hanno a disposizione tantissime opzioni (a cominciare da un attacco a tre punte, modello Barça, che non si è ancora visto). Però, fin qui, è sufficiente.

CARLO PIZZIGONI

Argentina-Germania 0-4: Muller al 3' p.t.; Klose 23', Friedrich 29', Klose 44' s.t.



Argentina (4-3-1-2): Romero; Otamendi (25' s.t. Pastore), Demichelis, Burdisso, Heinze; Maxi Rodriguez, Mascherano, Di Maria (30' s.t. Aguero); Messi; Higuain, Tevez. All Maradona.
Panchina: Andujar, Pozo, C.Rodriguez, Garce, Samuel, Bolatti, Veron, Gutierrez Jonas, Palermo, Milito.

Germania (4-2-3-1):
Neuer; Lahm, Mertesacker, Friedrich, Boateng (27' s.t. Jansen); Khedira (33' s.t Kroos), Schweinsteiger; Muller (39' s.t. Trochowski), Ozil, Podolski; Klose. All: Loew.
Panchina: Wiese, Butt, Aogo, Tasci, Badstuber, Marin, Kiessing, Cacau, , Gomez.

Arbitro:
Irmatov (Uzbekistan)

Note:
ammoniti Otamendi, Muller, Mascherano.

Ebbene sì, la Germania ha denudato il re. Coesione difensiva e capacità di ripartire e verticalizzare il gioco, tanto è bastato agli uomini di Löw per annientare l'Argentina: mai squadra, in questo Mondiale. Per rispedirla a Buenos Aires c'è voluta quella che invece più squadra di tutte si è dimostrata sin qui, la Mannschaft, che non si accontenta di superare agevolmente il turno ma coglie anzi la palla al balzo per lanciare un messaggio chiarissimo alla vincente di Paraguay-Spagna: ci prenderemo noi il posto e finale, e pure gli applausi del pubblico.
Compito primo per l'analista della partita - il sottoscritto, in questo caso - è però capire che cosa frulli nell'impomatata testa di Maradona. Che le idee del Pibe de Oro non siano chiarissime si è avuto modo di intuirlo sin dall'esordio messitematico contro la Nigeria, però l'ostinazione nel puntare su Otamendi (buon centrale, ma agghiacciante nelle vesti di terzino) è inspiegabile: chi si permette il lusso di lasciare a casa Javier Zanetti dovrebbe quantomeno essere in grado di rimpiazzarlo con un calciatore del medesimo livello, non di adattare un centrale difensivo dove prima era stata deludentemente proposta un'ala. Nulla di strano, quindi, nel fallo su Podolski che genera il gol del vantaggio tedesco (Müller di testa, in anticipo proprio sull'impresentabile Otamendi) ed incanala la partita sui binari teutonici. Con l'Argentina costretta a rimontare, Schweinsteiger e soci stringono le maglie ed annientano gli spazi tra i reparti: la manovra dell'Albiceleste langue nella propria metà campo, priva d'idee e di movimento senza palla. Messi, che dovrebbe accendere la luce, non ci riesce perché troppo lontano dall'interruttore: costretto ad andarsi a prender palla fin quasi sulla propria trequarti campo, non è in grado di risolvere individualmente la partita. Le alternative al prodigio blaugrana si chiamano Tevez e Di Maria, ma neppure loro riescono ad impensierire più di tanto l'ordinata retroguardia tedesca, anche se il neoacquisto del Madrid mourinhano in avvio di ripresa qualche apprensione a Neuer la crea. Ma è davvero troppo poco, e la Germania ne approfitta non appena si esaurisce la spinta emotiva degli avversari: Müller - da terra: genialmente efficace - serve in profondità Podolski che regala a Klose il 2-0.
Il gol del raddoppio induce Maradona a cambiare qualcosa, senza criterio però: Pastore subentra ad Otamendi, sbilanciando la squadra che infatti piglia anche il 3-0 da Friedrich (!) dopo uno slalom dell'ex promessa dello sci Schweinsteiger (non scherzo: il biondo regista del Bayern Monaco eccelleva per davvero nello sci alpino, in gioventù). Veron e Milito, intanto, rimuginano sulla loro permanenza in panchina. Con un'Argentina allo sbando, Klose ne approfitta per segnare il quattordicesimo gol in carriera ai Mondiali, eguagliando Gerd Müller e rendendo ancor più dolce questa vittoria.
Parere personale, all'Argentina serve un allenatore: Maradona è un «ventiquattresimo», forse un buon motivatore ma non di certo il sapiente in grado di trovare la formula per far coestistere Messi, Tevez, Higuain ed Agüero. E per questa generazione di fenomeni - offensivi e non: Cambiasso e Mascherano hanno il fiato necessario per renderne possibile la convivenza - la prossima sarà probabilmente l'ultima chiamata mondiale.

ANTONIO GIUSTO

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Nella conferenza stampa che ha seguito l’amichevole dello scorso Marzo il ct argentino Diego Armando Maradona si rese protagonista di una delle solite pantomime imbarazzanti, ridicolizzando e offendendo un ragazzo tedesco che si era trovato seduto ad un paio di posti da lui, rifiutandosi di parlare “vicino ad un raccattapalle”, vicino a ragazzini sconosciuti. Ebbene, quel ragazzo a quelle offese di un personaggio tanto brillante in campo quanto discutibile in tutto e per tutto ha deciso di rispondere al Cape Town Stadium, presentando il biglietto da visita: “Piacere, sono Thomas Muller” potrebbe dire adesso, brillando con una prestazione da vero e proprio man of the match e eliminando al Mondiale proprio Maradona, battuto con la sua Argentina con un nettissimo 4-0. Quell’atteggiamento così arrogante quattro mesi dopo appare assolutamente comico, uno degli autogol più incredibili della storia del Mondiale: chissà, forse caricato da quel ricordo negativo e imbarazzante, Muller ha saputo tirare fuori un’altra prestazione di altissimo livello, con il solito grande lavoro a tutto campo, con il solito grande contributo alle due fasi di gioco, impreziosito oltretutto dal gol che sblocca il risultato e dall’incredibile passaggio da terra che ha aperto il Mar Rosso di fronte a Podolski per l’azione del gol del raddoppio. Adesso anche Maradona conosce perfettamente Thomas Muller, statene certi.

Continua il brillantissimo Mondiale della Germania, Nazionale che incredibilmente ogni volta prima delle grandi competizioni viene dimenticata dai media nell’elenco delle favorite, ma che storicamente in un modo o nell’altro arriva quasi sempre fino in fondo: adesso lo fa anche in modo brillantissimo e convincente, con risultati che parlano da soli, basti pensare al 4-1 inflitto all’Inghilterra e al 4-0 inflitto adesso all’Argentina. A voler essere pignoli, la prestazione di questo pomeriggio non è stata “bella” come quella contro i Three Lions, quanto piuttosto una vittoria di carattere: nonostante il solito gioco slegato dell’avversario, la Mannschaft ha dovuto attraversare momenti e minuti di sofferenza vera e propria, ma nonostante un gruppo dall’età media piuttosto bassa la squadra non s’è certo persa, ha tenuto con i denti il risultato per poi riuscire ad affondare la lama nel burro della difesa avversaria. Una volta trovato il gol della sicurezza, ancora una volta il match è diventato una festa per la Germania, capace nuovamente di ottenere un grande risultato contro un avversario di alto rango.

Il match parte bene con il gol del vantaggio che arriva immediatamente, con Muller che sorprende una difesa abbastanza immobile, batte il suo marcatore Otamendi (in costante affanno sulla corsia) e con il tocco di testa sorprende il goffissimo Romero, autore di un errore davvero grossolano soprattutto per la lentezza di reazione. Per 20 minuti la Germania sembra dominare sul piano tattico, ma non trova l’incisività per trovare il gol del raddoppio: in particolare, i tedeschi paradossalmente sembrano perdere le chances perché in alcune azioni le possibilità di scelta sono addirittura troppe. L’Argentina però non può stare a guardare e cresce, premendo molto nell’ultimo quarto d’ora e creando qualche occasione potenziale, anche perché la Germania sembra perdere stranamente disciplina, disunendosi un po’ tra i reparti e concedendo qualche spazio evitabile: Low però sa trovare i correttivi all’intervallo, presenta una Germania più compatta e (come nel secondo tempo contro l’Inghilterra) i tedeschi sembrano accettare la pressione avversaria, abbassando il baricentro per poi provare a colpire in contropiede.

In tutto questo si vede la confusione tattica dell’Argentina, che ha i singoli per trovare il gol del pareggio con una giocata individuale (anche estemporanea) ma che non ha un’idea tattica e di gioco: si parte con il 4-3-1-2 con i due interni Maxi Rodriguez e Di Maria che partono meno larghi rispetto al match contro il Messico anche per aiutare Mascherano. In realtà, inizialmente questo lavoro funziona decentemente in fase di non possesso, perché i trequartisti tedeschi non hanno quelle praterie temute con l’assetto visto contro il Messico (con quindi Mascherano isolatissimo in mediana), ma l’Albiceleste ha comunque grandi problemi perché quelle volte in cui il centrocampo viene saltato, la difesa fa davvero pochissima opposizione per resistere e sembra poter imbarcare in qualsiasi momento: paradossalmente, l’unico a salvarsi sembra l’uomo più criticato nel post-partita, ovvero Demichelis, visto che al suo fianco Burdisso non trova un intervento giusto nemmeno a pagarlo oro, Otamendi (come detto) è in completo affanno e Heinze si rende protagonista solo di qualche sceneggiata isterica tipica del suo comportamento (e non solo). Questo però non funziona in fase offensiva e Maradona decide di cambiare, dando il là alla confusione tattica: Di Maria passa a destra per attaccare Boateng (non un’idea malvagia visto che il neoacquisto del Manchester City soffre nel finale di primo tempo); ma questo crea squilibri evidenti nell’assetto perché non c’è un elemento che occupi con costanza la fascia sinistra.

Oltretutto, come visto dall’esordio contro la Nigeria, questa squadra non ha alcuna organizzazione di gioco, non ha idee su come svolgere il possesso di palla e si affida soltanto alle individualità, che sono importanti ma che in un Mondiale non dovrebbero bastare da sole (anche se questo è un Mondiale in cui solo la Germania sa regalare livello tecnico alto): qui si vedono tutte le magagne di un ct improvvisato come Maradona, più un capopopolo che un tecnico vero e proprio, perché questi sono difetti erano stati visti già all’esordio del Mondiale e da quel momento non c’è stata alcuna involuzione di gioco, la squadra ha continuato a giocare così illudendosi che ciò possa bastare. L’Argentina ha grandi singoli e riesce a creare una certa pressione, ma in tutti questi cinque match una caratteristica è spiccata agli occhi è mai Maradona ha saputo porre rimedio: il movimento senza palla è pressoché nullo, gli elementi offensivi aspettano il pallone da fermo e poi sono costretti quasi sempre a fare tutto da soli. La Germania nella ripresa crea un buon muro, difende molto bene con tutti gli elementi e estromette dalla partita Tevez e Higuain, mentre sono di Messi gli unici spunti interessanti dell’Albiceleste. L’Argentina perde pazienza col passare dei minuti e allora si aprono gli spazi per il contropiede: come contro l’Inghilterra, la Germania colpisce con un uno-due devastante, trovando anche il sigillo finale con Miroslav Klose, autore di una doppietta ma che aveva lavorato più e meglio per la squadra nell’ottavo di finale.

Il tutto con la stella più luminosa della squadra a giocare un match “normale”: Ozil ha trovato qualche buona giocata, ma non è presente nelle azioni dei quattro gol e in generale non punge come nelle altre partite. Eppure le risorse di questa squadra sono tante e si può sopportare un match sufficiente (o leggermente insufficiente) di Ozil portando a casa un 4-0 devastante. Davvero eccellente la prova della linea difensiva, con Lahm che ancora una volta si conferma un elemento dalla grandissima affidabilità, mentre strepitosa è la prestazione di Mertesacker, dovuta anche all’organizzazione dell’intera squadra: il centrale del Werder Brema ha il difetto di non essere rapidissimo e sulla carta avrebbe dovuto soffrire molto contro elementi veloci come Higuain, Tevez e Messi, ma la squadra gli ha permesso di non essere mai attaccato in velocità, esaltandone tutte le doti migliori e trovandone una prestazione perfetta. E’ lui il secondo migliore in campo dietro un Muller ormai incommentabile: davvero un peccato che un’ammonizione ridicola per un fallo di mano inesistente lo costringerà a saltare la semifinale, assenza pesante e ingiusta. Due ammonizioni in cinque partite bastano per far saltare una semifinale, per una regola modificata dalla FIFA per impedire ai calciatori di saltare per squalifica la finale: certo, come se una semifinale sia poi così meno importante. La Germania troverà la Spagna in una riedizione della finale di Euro 2008: la squadra di Del Bosque dovrà alzare il proprio livello di gioco (fin qui lento e raramente brillante) per non soffrire la freschezza dei ragazzi tedeschi.

Al solito gli osservatori sono abilissimi a trarre giudizi frettolosi dal nulla: il cosiddetto dominio sudamericano che aveva portato quattro squadre ai quarti di finale si trasforma in una quasi ecatombe, con solo l’Uruguay ad arrivare in semifinale e in modo quantomeno bizzarro, per non dire eticamente rivedibile. Le europee date in crisi invece portano tre squadre in semifinale: in realtà, in tutto il Mondiale c’erano state giusto tre vittorie di Nazionali sudamericane contro Nazionali europee, delle quali una in un match viziato da un rosso assurdo (Cile-Svizzera) e un’altra dettata da un divario tecnico indiscutibile e nettissimo (Grecia-Argentina), con infine il successo del Paraguay sulla Slovacchia. Non proprio sto trionfo di cui s’era discusso e che ora ovviamente viene gettato nel dimenticatoio. L’eliminazione dell’Argentina arriva con un risultato netto e indiscutibile: vince la squadra contro i singoli.

SILVIO DI FEDE

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Il più grande errore di Maradona è stato credere che Messi fosse lui. Un errore che ha creato le premesse per la figuraccia tattica di ieri. Ieri l’Argentina era una squadra da dopolavoro. Tutti fermi ad aspettare le accelerazioni messiane. Come accadeva nel 1986, secondo un calcio di mille anni fa. L’idea di Maradona era fotocopiare il 1986 e riproporlo grazie alla Pulce. Una difesa bloccatissima (Brown, Cuciuffo e Ruggeri erano tre centrali e Olarticoechea non garantiva una grandissima spinta), centrocampo di lotta con un mediano compassato che moderava i ritmi e faceva muovere a cadenza bassissime la squadra (e qui nasce il primo grande problema: Batista nel 1986 poteva giocare al calcio perché bastava fraseggiare a velocità da dopolavoro nella propria metà campo, mentre con il pressing di oggi Veron è improponibile e Maradona sapeva di non poterlo schierare dopo che lo aveva testato nella prima gara con la Nigeria), un attacco con un centravanti goleador e una seconda punta che svariava. Il nodo e lo snodo è il numero 10. Lì c’era Maradona, che saltava gli uomini e riusciva a non imbottigliarsi mai (anche per la mancanza di pressing). In questo modo apriva spazio per gli altri due attaccanti che trovavano sempre la strada spalancata. Messi invece saltava i primi due e andava ad imbottigliarsi in mezzo a tre avversari che gli negavano tutti gli spazi di passaggio. In questo modo continuava a dribblare, perdendo palla o tirando in porta sbilanciato. Messi non è Maradona perché doveva capire di anticipare il tempo di passaggio, così da coinvolgere gli altri nel gioco e destabilizzare la difesa avversaria. Non è Maradona perché se vicino non gli metti Xavi e Iniesta che portano la palla pulita fino ai 25 metri, Messi non è capace di far muovere la squadra, costretta a stare appresso alle sue briciole. Nel Barcellona può aspettare a sinistra lo svolgimento del gioco e poi accendersi quando la difesa avversaria deve già prendere in carico l’intero fronte del gioco, mentre nell’Argentina, non avendo mediani di costruzione, partiva dal centro e andava a fare confusione sia a destra che a sinistra, bloccando qualsiasi gioco in fascia. Con un Veron, e non con Cambiasso e Zanetti che non avrebbero portato nessuna variante in questo sistema di gioco, questo gioco si poteva attuare, ma la Brujita era da pensione. Sciocco anche il richiamo a Milito, che sa giocare soprattutto in profondità con una batteria di mezze punte che portavano palla senza darla mai nello spazio. Maradona per me ha fatto il massimo con una squadra facilmente disinnescabile.

JVAN SICA


Il massacro di Città del Capo (4-0 finale) che porta la Germania in semifinale ai danni dell'Argentina dice più di una verità. La prima, la più grande riguarda proprio lo spirito del gioco: vince la squadra che interpreta un calcio moderno e organizzato che esalta soprattutto il collettivo. Esce sconfitta, invece, probabilmente l'11 di maggiore talento e qualità, ma che produce un calcio vecchio, sotto ritmo e fatto solo di giocate individuali. Messi, Di Maria, Tevez, Higuain sono tutti grandi giocatori (così come Milito e Aguero seduti in panchina) e tutti in grado di indirizzare, in una situazione, una gara: ma non possono mai, a questo livello, deciderla da soli. Un'altra verità riguarda l'emotività della gara. E' vero che la Germania patisce la personalità dell'Argentina per tutta la fase centrale della partita però, pur non avendo tanti giocatori abituati a queste platee e una età media bassissima (nemmeno 25 anni), rimane concentrata e cosciente su tutto quello che il piano partita prevede. Un'ultima verità dice di un talento, grande, grandissimo pescato da un super tecnico come Louis van Gaal nelle formazioni giovanili del Bayern e buttato nella mischia senza paura: Thomas Muller è stato il protagonista di questo quarto di finale, segnando la rete che ha sbloccato l'incontro e regalando l'assist hockeystico del secondo gol che ha tagliato le gambe all'Argentina. Muller è un grande giocatore perché mette le proprie qualità al servizio della squadra, senza attaccare a testa bassa e bava alla bocca la porta avversaria, come hanno fatto tanti suoi “pari grado” in maglia bianco-azzurra: non è solo una caratteristica, è tutto, è il calcio, almeno quello del 2010.
Joachim Loew ripropone il 4-2-3-1e inizia bene il match trovando immediatamente la rete del l'1-0: punizione da destra, narcolessia diffusa dell'Albiceleste e rete di testa di Muller che anticipa Otamendi. Il vantaggio permette agli uomini in bianco di valorizzare la miglior cosa proposta a questo mondiale, la transizione offensiva, con la squadra che sale con la spaziatura e i tempi corretti arrivando con semplicità al tiro. Il passaggio chiave è sempre un giocata semplice a inizio azione di Schweinsteiger, reinventato centrale di centrocampo sempre dal solito Louis van Gaal in questa stagione al Bayern.
L'Argentina gioca il solito calcio fatto di possesso palla quasi inconcludente poiché non muove la difesa avversaria e si accende quando c'è il passaggio verso Messi che vuole sempre palla nei piedi per provare un uno contro uno (e poi due, tre...) o una verticalizzazione. La Pulce però riceve palla molto distante dall'area di rigore e nemmeno il suo spropositato talento gli permette però di trovare sempre la lettura adeguata. La Germania si difende sempre optando per una densità folta davanti all'area di rigore, con la linea medio alta vicinissima ai due mediani: l'obiettivo è non permettere il gioco tra le linee agli avanti sudamericani, che hanno tutti ottimo uno contro uno e il piede per trovare la porta anche dai 25 metri. Subiscono, soffrono, specie a cavallo della pausa ma rimangono concentrati e non concedono mai una giocata facile.
L'Argentina parte piano nel primo tempo, crea qualcosa e resta a galla più che con l'ordine tattico con la volontà, la celebre “garra”: è certamente questa unione d'intenti il lato più apprezzabile del lavoro di Maradona. Ma da sola non può bastare per una semifinale mondiale, tanto che poi si spegne, di colpo, dopo il secondo gol, l'ennesimo di Klose, che nasce da sinistra sull'asse Muller-Podolski. Diego inserisce Pastore per l'adattato terzino destro Otamendi, spostando Maxi Rodriguez sull'ultima linea: cambia davvero poco. Anzi, liberata dalla paura figlia dell'inesperienza (pecca molto Ozil nei momenti cruciali, a dirla tutta) i tedeschi prendono coraggio e trovano la terza segnatura (grande slalom di Schewinstiger sulla linea di fondo e passaggio-gol per Friedrich) e poi la quarta (ancora Klose). Sono gli ultimi chiodi nella bara di un'idea di calcio morta e sepolta. Va avanti la Germania, con pieno merito. E insieme.

CARLO PIZZIGONI

venerdì 2 luglio 2010

Uruguay-Ghana 5-3 dopo i calci di rigore (1-1 tempi regolamentari)


URUGUAY (4-4-1-1): Muslera; M. Pereira, Lugano (38'pt Scotti), Victorino, Fucile; A.Fernandez (1'st Lodeiro), Perez, Arevalo Rios, Cavani (31'st Abreu); Forlan; Suarez. (A disp.: Castillo, Silva, Godin, Gargano, Eguren, A.Pereira, I.Gonzalez, S.Fernandez, Caceres). All.: Tabarez

GHANA (4-1-4-1): Kingson; Pantsil, Mensah, Vorsah, Sarpei; Annan; Inkoom (29'st Appiah), K.Asamoah, K.Boateng, Muntari (43'st Adiyiah); Gyan. (A disp.: Agyei, Ahorlu, D.Boateng, Tagoe, Amoah, I.Ayew, Addy, Owusu Abeyie). All.: Rajevac

ARBITRO: Benquerenca

NOTE: serata fredda, terreno in discrete condizioni, spettatori 84.017. Angoli: 12-8 per l'Uruguay. Espulso al 15'sts Suarez per fallo di mano a porta vuota. Al 15'sts Gyan ha calciato un rigore sulla traversa. Ammoniti: Fucile, Arevalo Rios, Pantsil, Perez, Sarpei, Mensah. Recupero: 2'; 3'; 1'; 1'. Sequenza rigori: Forlan (gol), Gyan (gol), Victorino (gol), Appiah (gol), Scotti (gol), Mensah (parato), Pereira (fuori), Adiyiah (parato), Abreu (gol)


Tremendo. Questa è pura crudeltà. E a volte, tranne che per i diretti interessati che avrebbero voglia di buttarsi sotto un treno, è anche parte del fascino del calcio. Sarebbe stata la prima squadra africana a qualificarsi per una semifinale, non avrebbe demeritato perché probabilmente superiore all’Uruguay (di sicuro più stimolante per l’appassionato), però… Suárez si sacrifica per la patria, fa mani e rigore, e Gyan Asamoah manda a infrangersi (MODALITÀ RETORICA: ON) sulla traversa le speranze di tutto un continente. Da lì in poi può succedere di tutto, anche che uno come il Loco Abreu, che coloro che amano l’argomentazione pacata definirebbero “scarpone patentato”, diventi l’eroe della serata trasformando il rigore decisivo con un cucchiaio. Poveri noi, povero Ghana, ma non è neanche il caso di criminalizzare un Uruguay che con le sue armi è sempre stato dentro una partita equilibratissima.

Anzi, c’è da dire che l’Uruguay la prima mezzora l’aveva dominata, giocando un grande calcio non per spettacolarità ma per chiarezza di idee, coerenza logica e determinazione. Tabárez nell’occasione ha abbandonato il centrocampo a tre (poi la composizione del settore avanzato dipende dalla posizione di Forlán, che può fare il trequartista o partire largo in maniera simmetrica rispetto a Cavani) per passare a un 4-4-2 più classico. Fuori Álvaro Pereira, Cavani esterno sinistro a tutti gli effetti, e a destra Álvaro Fernández. Contando l’aiuto di Forlán nei ripiegamenti e nel pressing, l’obiettivo è non andare in inferiorità rispetto al temibilissimo centrocampo ghanese, che per questo motivo aveva fatto girare la testa agli USA nel primo tempo dell’ottavo.
Comunque più che le formule numeriche conta in questo caso l’applicazione, l’intensità e la compattezza che ci mette l’Uruguay. Rispetto alle scorse partite inizia più aggressivo, con un baricentro più avanzato, ma il punto di partenza è sempre e comunque la fase di non possesso, rubare la palla e ripartire. Questa squadra non vuole, non può e non sa elaborare, e a partire da questa premessa sceglie la strategia più razionale. Passare meno possibile per Diego Pérez e Arévalo Rios, non aver problemi a spararla lunga, e da lì braccare la seconda palla, qualche volta anche buttarla in fallo laterale per salire e pressare, perché così in caso di riconquista si può ripartire subito con Forlán e Suárez. Diretto, verticale e senza fronzoli, l’Uruguay meriterebbe il gol nella prima mezzora.
Il Ghana sembra paralizzato, ma lo sciolgono due occasioni di fila (Vorsah su calcio d’angolo e un contropiede finalizzato male da Gyan Asamoah), che non solo lo fanno entrare in partita, ma costituiscono anche la premessa del vantaggio siglato da Muntari allo scadere del primo tempo. Pardon, il vantaggio siglato da Jabulani: con tutto quello che si può dire di Muslera, il suo movimento verso l’altro palo era sacrosanto, poi se La Palla Pazza che strumpallazza ha un ripensamento dell’ultim’ora e cambia direzione son problemi suoi e degli scienziati che per mesi si chiudono in un laboratorio ad inventarla.
Entra in scena il Ghana, una squadra onestamente più complessa e più evoluta dell’Uruguay. Mi ha dato fastidio in questi mondiali sentire ancora i soliti luoghi comuni sulle squadre africane. Quando sbaglia un brasiliano, un saudita, un giapponese o un olandese, è un errore individuale; quando invece sbaglia un giocatore africano, non è un errore individuale, è perché LORO sono così. Persino da uno come Dossena, che LORO dovrebbe conoscerli meglio di molti altri, capita di sentire nella telecronaca di Germania-Ghana luoghi comuni tipo “la ragione contro l’istinto”, oppure un incredibile “LORO non li capiscono gli uno-due”. Manca il mito del Buon Selvaggio, e siamo al completo.
Ebbene, LORO a parte la corsa e le doti fisiche sono una delle squadre meglio pensate, più razionali e raffinate di questo mondiale. Organizzata, flessibile, capace di adattarsi a più contesti tattici, tecnicamente dotata. È più evoluta perché quando è in fase di non possesso, per come gestisce il pressing o i ripiegamenti, sta già preparando la successiva fase di possesso. Quando non ha la palla orienta la manovra dell’avversario verso la zona del campo dove intende recuperare, e da lì sa ripartire magistralmente (il merito principale dell’Uruguay nella prima mezzora è consistito proprio nello scavalcare il centrocampo e quindi questa trappola). Questo va ben oltre la povertà della maggior parte delle squadre di questo mondiale, portate ad accumulare uomini dietro slegando del tutto le due fasi del gioco. Concetto limitato dal quale in tutta onestà per larghi tratti non sfugge nemmeno l’Uruguay.
Poi quando hanno il pallone i ghanesi sanno fare la partita, sanno gestire i tempi e avanzare con ordine e fantasia. Il valore aggiunto rispetto alle altre squadre del continente risiede proprio nella qualità e nel senso del gioco dei centrocampisti, che purtroppo scarseggia nell’attuale congiuntura del calcio africano. Dall’intelligentissimo Annan davanti alla difesa, a Ayew ieri assente, a Kwadwo Asamoah (troppo incostante però, quasi nullo ieri), a Kevin Prince Boateng (eccessi d’individualismo a parte). Dove purtroppo si perde il Ghana è negli ultimi metri, manca killer instinct: nonostante il movimento e le buone doti tecniche di Asamoah, non c’è freddezza e le scelte nella fase di finalizzazione del gioco talvolta sono incomprensibili. Però il concetto di squadra, il blocco, è uno dei più apprezzabili del torneo. Altro che istinto contro ragione.
La scarsa concretezza negli ultimi metri ha impedito al Ghana di far sua la partita definitivamente, e all’Uruguay di restare pienamente in partita dopo il pareggio di Forlán (qui sì che c’è un grosso errore del portiere). Quando i minuti passano e gli spazi aumentano, Tabárez si gioca tutto il suo arsenale offensivo per colpire meglio di rimessa: il trequartista Lodeiro era già entrato a inizio ripresa al posto di Álvaro Fernández, ribadendo qualità interessanti (l’unico capace di portare palla e cucire i reparti oltre a Forlán; Ignacio González invece tagliato dopo la prima deludente con la Francia), mentre Abreu al posto di Cavani insegue solo le mosche, finchè si sta nei tempi regolamentari.
Anche il Ghana aggiunge una punta, Adiyah, ma ciò nonostante le occasioni pericolose si diradano, tutte e due le squadre perdono progressivamente lucidità, fino alla follia finale.

VALENTINO TOLA

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Diamo il benvenuto a un nuovo collaboratore del blog, Andrea Antoccia.

Prima di cominciare, volevo ringraziare gli amministratori del blog che mi hanno permesso, seppur con qualche gara di ritardo, di entrare a far parte della squadra di collaboratori. Grazie di cuore. Comincio questa mia nuova avventura raccontandovi la gara più bella del mondiale sudafricano: Uruguay-Ghana, pazzo, pazzissimo quarto di finale.

«Perché ami il calcio?»: se prima di Uruguay-Ghana qualcuno mi avesse posto questa amletica domanda, non avrei saputo rispondere. Ma se oggi chicchessia mi metterebbe di fronte allo stesso interrogativo, gli mostrerei gli ultimi due minuti del secondo quarto di finale del mondiale sudafricano: dalla punizione di Annan, con la prima respinta di Suarez su Adiyiah, all'ultimo rigore della spietata lotteria degli undici metri, trasformato con un rischiosissimo cucchiaio da Abreu. Nel mezzo, un inevitabile fallo di mano a porta vuota dell'attaccante uruguayano dell'Ajax, espulso dal portoghese Benquerenca, e quattro errori dal dischetto; il più importante, quello di Gyan, giunto proprio dopo il fallo di Suarez, a una manciata di secondi dal termine dei tempi supplementari.
Tempi supplementari che, continuando il racconto a ritroso, erano giunti dopo che l'equilibrio aveva regnato sovrano a Johannesburg: al gol di Muntari, arrivato in chiusura di primo tempo, aveva presto risposto, dopo l'inversione di campo, il solito Forlan. Il gioco? Un fritto misto. Dopo un inizio in controtendenza rispetto al prosieguo della sfida, con entrambe le squadre chiuse nella propria metà campo, era emerso l'Uruguay, costretto poi a tornare sulla terra a causa dell'infortunio di Lugano, che ha privato la squadra di un difensore capace di impostare il gioco come pochi altri sanno fare. Privo della frizzantezza di Ayew, squalificato, il Ghana si è affidato all'estro di Gyan, capace di inventare giocate illuminanti anche nei momenti di maggior difficoltà della sua squadra. Sfruttando l'inevitabile calo fisico della Celeste, giunto sul finire della prima frazione, la nazionale africana ha acquistato il dominio del centrocampo arrivando più volte in porta e riuscendo ad «uccellare» Muslera sui titoli di coda.
Il solito problema della sterilità offensiva, però, ha impedito all'undici di Rajevać di far sua la gara. E così, ci ha pensato Diego Forlan, alla terza rete della rassegna, a punire la prima e unica disattenzione di Kingson. Più volte il risultato di parità è stato messo a dura prova, ma al centoventesimo si è giunti ancora sull'uno a uno, con le due squadre sfinite ed il tecnico serbo che non ha inspiegabilmente effettuato la terza sostituzione a sua disposizione. E lì è accaduto l'impensabile. Sul calcio di punizione di Annan, l'ultimo della gara, si è gettato Adiyiah, vedendosi respingere il tiro da Suarez; il giovanissimo attaccante del Milan è piombato sulla ribattuta, ma il suo tiro a botta sicura è stato ancora fermato sulla linea di porta dall'uruguayano. Che, però, l'ha fatta fuori dal vaso: fallo di mano, espulsione e rigore. Rigore che Gyan, già a segno dagli undici metri contro Serbia e Australia, ha calciato sulla traversa. L'emozione, è stato detto: ma perché, allora, nella lotteria degli undici metri il suo rigore è stato quello calciato meglio? Nessuno potrà mai saperlo.
Fatto sta che, giunto grazie ad una incredibile botta di fortuna fino ai rigori, l'Uruguay ha improvvisamente riacquistato tutto il vigore perduto in precedenza. La formica - Muslera, in questo caso - s'è incazzata, e ha riscattato l'errore commesso sulla rete di Muntari respingendo i tiri dagli undici metri di Mensah prima e Adiyiah poi. Il resto l'ha fatto «el Loco» Abreu, peggiore in campo nei centoventi, con un cucchiaio che riassume alla perfezione il suo soprannome. Un cucchiaio che fa la storia: quella dell'Uruguay, che torna a giocare una semifinale mondiale dopo quarant'anni, e quella del Ghana, a cui invece è mancato tanto così per riscrivere la storia calcistica di un intero continente.

ANDREA ANTOCCIA