mercoledì 30 giugno 2010

Spagna-Portogallo 1-0: Villa (S) al 18’ s.t.


SPAGNA (4-1-4-1) Casillas; Sergio Ramos, Piqué, Puyol, Capdevila; Busquets; Iniesta, Xavi, Xabi Alonso (dal 48’ s.t. Marchena), Villa (dal 43’ s.t. Pedro); Torres (dal 13’ Llorente). (Reina, Valdes, Albiol, Arbeloa, Jesus Navas, Silva, Fabregas, Javi Martinez, J. Mata) All. Del Bosque .

PORTOGALLO (4-3-3) Eduardo; Ricardo Costa, Ricardo Carvalho, Bruno Alves, Coentrao; Tiago, Pepe (dal 27’ Pedro Nendes), Raul Meireiles; Simao (dal 27’ s.t. Liedson), Hugo Almeida (dal 13’ Danny), C. Ronaldo. (Beto, Daniel Fernandes, Paulo Ferreira, Rolando, Duda, Miguel, Deco, Miguel Veloso) All. Queiroz .

ARBITRO Baldassi (Arg).

NOTE: espulso Ricardo Costa (rosso diretto) al 43’ .t. per gioco scorretto. Ammoniti Xabi Alonso (S), Tiago (P) per gioco scorretto. Spettatori 62.955. Angoli 6-3. Recuperi: 1’ p.t., 3’ s.t.


Fra le due iberiche, la Spagna gode. Lievissimi progressi ma ancora parecchi problemi di gioco per la squadra di Del Bosque, che comunque guadagna fiducia e potrà giocarsi da favorita il quarto col Paraguay, pur non del tutto privo di insidie (i sudamericani si difendono come la Svizzera, non hanno manovra ma possono comunque creare l’episodio con il loro attaccanti molto più di quanto non potessero gli elvetici già andati di traverso alle Furie Rosse). Banalissimo il Portogallo.

Il meglio della propria partita la Spagna lo offre nelle battute iniziali, con tre conclusioni verso la porta di Eduardo, discreta come approccio e ritmo. Il Portogallo è schierato con un 4-1-4-1 dove però Cristiano Ronaldo copre la fascia destra con scarsi obblighi difensivi (per indole, ma anche per una questione di equilibrio: Queiroz sa che è lui il giocatore sul quale basare l’uscita per il contropiede). La Spagna comincia a muovere palla con Piqué, che attira un po’ il centrocampo portoghese, poi gira verso il lato opposto, dal centro-destra verso sinistra, con cambio di gioco o con scambi palla a terra non fa differenza, l’obiettivo è attaccare la fascia destra del Portogallo. Villa riceve largo, e a supporto c’è Capdevila e a turno Xabi Alonso, Xavi o Iniesta che appoggiano da quella parte e creano un tre-contro-due. Cristiano Ronaldo ripiega poco, Tiago è costretto ad allargarsi, e così quando non trova il fondo la Spagna può comunque rientrare centralmente per cercare o una nuova combinazione sulla trequarti o la conclusione diretta in porta, come fanno Villa due volte e Torres una. Torres che invece dal centro taglia spesso verso destra per allargare la difesa portoghese anche dall’altro lato e aprire alle sovrapposizioni di Ramos o a incursioni dalla seconda linea. Una Spagna aggressiva nei movimenti offensivi, peccato però che duri un quarto d’ora scarso.

Xavi non ha la stessa assurda posizione di trequartista della partita col Cile, esageratamente avanzata e avulsa dal gioco, partendo qualche metro dietro tocca più palloni e vede la giocata di fronte, però la ripartizione degli spazi resta non ottimale, e la composizione del centrocampo una forzatura.
Inizia con tre centrali (e Busquets che scaccia Xabi Alonso dalla zona davanti alla difesa, dove il basco può giocare il suo calcio migliore…), poi in corso d’opera Iniesta abbandona la fascia destra e si passa a una sorta di “quadrato non magico”, Xabi Alonso e Busquets bassi e Xavi e Iniesta avanzati. Si può dire che rispetto alle partite precedenti la Spagna guadagni un pochino di equilibrio: non c’è quella stridente separazione fra un blocco arretrato e uno avanzato vista contro il Cile e a tratti con l’Honduras, perché i quattro giocano molto ravvicinati e molto stretti nella zona del “trivote” portoghese (Pepe davanti alla difesa, Tiago interno destro, Meireles interno sinistro), guadagnando la superiorità numerica e assicurando un certo controllo, però è altresì evidente che l’azione del centrocampo manca di profondità, si fa troppo piatta e sacrifica quei potenziali appoggi in zone più avanzate che potrebbero far progredire l’azione della Spagna con maggiore agilità, snellendo l’inizio dell’azione davanti alla difesa (butto lì il nome del signor Silva…). Invece ancora troppi movimenti incontro al pallone, ancora troppa poca presenza a ridosso dell’attacco, troppo ridondante palleggiarsi addosso.
Il quadrato centrale controlla ma non smuove il sistema difensivo portoghese, non ci sono movimenti verticali, tagli dalla fascia verso il centro o viceversa che possano smuoverlo. Il quadrato gestisce il pallone, attira un po’ il Portogallo in quella zona, però una volta che apre verso le fasce, Sergio Ramos e Villa, i riferimenti larghi (qualche volta anche Torres che si defila), devono portare palla e puntare, talvolta anche due avversari, senza l’effetto-sorpresa della sovrapposizione. Troppo statico, troppo rimasticato il gioco. Capita di vedere Piqué sbracciarsi e giocare palla lunga senza troppa convinzione, oppure di vedere Xabi Alonso e Busquets passeggiare incerti correndo persino il rischio di inciampare. Segno che i riferimenti per i portatori di palla non sono mai certi, si è smesso di giocare a memoria, e il tocco di prima non viene più naturale.
E questo blando controllo non è nemmeno troppo sicuro, perché una simile staticità facilita le letture difensive portoghesi e può forzare perdite pericolose in mezzo al campo, come quella di Xabi Alonso che avvia un contropiede di Meireles, sul cui cross però Hugo Almeida cicca la deviazione di testa, potenzialmente letale perché la difesa spagnola, mal disposta, non lo marcava.

La ripresa prolunga lo stallo del gioco spagnolo e della partita in generale. Spagna bloccata, e se stiamo ad aspettare il Portogallo stiamo freschi. Il contropiede lusitano si segnala per la sua scarsa organizzazione: il problema non è giocare una partita difensiva, che anzi contro la Spagna è la strategia più comprensibile, il problema è non avere un’azione di rimessa sufficientemente organizzata, studiare i punti d’appoggio per uscire dalla metacampo e gli spazi da colpire. Così tutto ciò si converte in una mera accumulazione di uomini nella metacampo difensiva. C’è Ronaldo perso, poco attivo e poco attivato, e praticamente è il solo Almeida, distantissimo dal resto, a dover inventarsi la transizione offensiva dal nulla, sgomitando per portare qualche pallone su. Disgraziato sotto porta, qualche insidia la crea però con il fisico prestante e la progressione, come quando scappa via e quasi provoca un’autorete di Puyol. Queiroz comunque lo toglie presto dal campo, in favore di Danny, lasciando così Cristiano Ronaldo unica punta.
Nello stesso momento Del Bosque opera il suo primo cambio, chiamando fuori il sempre più discusso Fernando Torres per dare spazio a Llorente. El Niño non brilla, vero, ma in attesa che la Musa lo ispiri come Paolo Rossi nell’82 (Nota: questa non l’ho scritta io ma l’Ufficio Censura della RAI, che esige almeno un riferimento nazionalpopolare per pezzo) resta un giocatore importantissimo se non fondamentale per il suo movimento senza palla. Torres che taglia e allunga la difesa avversaria è già una possibilità in più di giocare bene per i compagni, anche se poi quando controlla il pallone gli scappa come una saponetta. Se non ci fosse lui il problema del palleggiarsi addosso si aggraverebbe, poco ma sicuro.
Una Spagna sempre poco profonda, che minaccia solo quando i suoi giocatori chiedono palla sul piede e trovano sporadicamente il varco per la rifinitura o per sassate come quelle di Villa che tutta la sera non fanno che inquietare Eduardo.
La prova delle difficoltà della Spagna è la stessa azione del gol, peraltro viziato da un fuorigioco di Villa: nell’occasione la Spagna non ha né la superiorità numerica centralmente né l’uomo smarcato tra le linee, il Portogallo è tutto piazzato, ma nonostante questo la pura abilità nello stretto permette a Xabi Alonso di pescare con un passaggio verticale Iniesta al limite dell’area, a Iniesta di girarsi spalle alla porta, nascondere il pallone e farlo filtrare per il colpo di tacco di Xavi che infine smarca Villa per il gol. Un’azione così arzigogolata non la trovate nei manuali di tattica, statene certi.
Grande la partita del Guaje, ispiratissimo in tutto il torneo: non ha nessun problema a partire dalla sinistra per cercare il gol (anzi, praticamente così si sta già allenando per il Barça), ma aiuta molto pure nei ripiegamenti in favore di Capdevila, anche se più gliene vengono chiesti più è segno che la Spagna non sta giocando come dovrebbe. Eccellente anche Ramos, da segnalare in negativo invece le ripetute incertezze di Casillas, peraltro in linea con tutta una stagione assai poco brillante.

Dopo il vantaggio è tutta un’altra cosa per la Spagna, perché quello che prima poteva essere un possesso-palla sterile ora diventa una pietra tombale sulla gara. Nessun altro sa conservare la sfera e far passare i minuti come questi giocatori, e si aprono naturali anche gli spazi in contropiede (gran percussione di Ramos sventata in angolo da Eduardo). Poi anche l’ingresso di Llorente è servito, perché oltre ad andare vicino al gol di testa in un paio di occasioni Fernandote protegge il pallone, fa salire i compagni e ottiene qualche fallo prezioso.
A questo poi c’è da aggiungere un Portogallo del tutto privo di idee quando non si tratta più di difendere lo 0-0. Poverissima la manovra, e deludente anche l’attitudine mostrata dopo il vantaggio. Serve a poco Liedson per Simão se l’unica nota di rilievo sono le iniziative di Coentrão, destinato a diventare il miglior terzino sinistro europeo vista anche la poco nutrita concorrenza. Mentre Del Bosque spende un paio di cambi da rischio-fucilazione (Pedro per Villa e Marchena per Xabi Alonso… tío, e se poi finisci ai supplementari?), il massimo che esprime il Portogallo sono una rimessa e un paio di cross alla ricerca della mischia con tutti dentro l’area avversaria. Anche il difensore Ricardo Costa, che però si fa espellere per aver steso Capdevila con un micidiale colpo di vento allo zigomo. Fa quasi sorridere per l’indecorosa sfacciataggine la sceneggiata del terzino del Villarreal.

VALENTINO TOLA

Paraguay-Giappone 5-3 dopo calci di rigore (0-0 tempi regolamentari)


Sequenza rigori Barreto (P) gol, Endo (G) gol; Barrios (P) gol, Hasebe (G) gol; Riveros (P) gol, Komano (G) traversa; Valdez (P) gol, Honda (G) gol; Cardozo (P) gol.

PARAGUAY (4-3-3) Villar; Bonet, Da Silva, Alcaraz, Morel; Vera, Ortigoza (dal 30’ s.t. Barreto), Riveros; Santa Cruz (dal 4’ p.t.s. Cardozo), Barrios, Benitez (dal 14’ s.t. Valdez). (D. Barreto, Bobadilla, Veron, Caceres, Torres, Caniza, Santana, Gamarra). All. Martino.

GIAPPONE (4-5-1) Kawashima; Komano, Nakazawa, Tanaka, Nagatomo; Matsui (dal 20’ s.t. Okazaki), Hasebe, Abe (dal 35’ s.t. K. Nakamura), Endo, Okubu (dal 1’ s.t.s. Tamada); Honda. (Narazaki, Kawaguchi, Uchida, Iwamasa, Konno, S. Nakamura, Inamoto, Yano, Morimoto). All. Okada.

ARBITRO De Bleeckere (Bel).

NOTE spettatori 36.742. Ammoniti Matsui, Nagatomo, Honda, Endo, Riveros. Recupero: 1’ p.t., 3’ s.t.

lunedì 28 giugno 2010

Brasile-Cile 3-0: Juan al 34’, Luis Fabiano al 38’ p.t.; Robinho al 14’ s.t.



BRASILE (4-3-1-2): Maicon, Lucio, Juan, Bastos; Daniel Alves, Gilberto Silva, Ramires; Kakà (dal 36’ s.t. Kleberson); Luis Fabiano (dal 30’ Nilmar), Robinho (dal 40’ Gilberto). (Gomes, Doni, Luisao. Thiago Silva, Josue, Grafite). All. Dunga.

CILE (4-3-3): Bravo; Jara, Fuentes, Contreras (dal 1’s.t. Tello), Vidal; Isla (dal 16’ s.t. Millar), Carmona, Beausejour; Sanchez, Suazo, Gonzalez (dal 1’ s.t. Valdivia). (Pinto, Marin, Fernandez, Orellana, Fierro, Paredes, Ponce, Estrada, Medel). All. Bielsa.

ARBITRO: Webb (Ing).

NOTE: spettatori 54.096. Ammoniti Kakà, Vidal, Ramires, Fuentes, Millar. Angoli 8-6. Recuperi 1’ p.t., 2' s.t.


Vince la squadra che difende bene e gioca con raziocinio contro la squadra che difende e gioca in maniera pressoché scriteriata: fino a qualche anno fa leggere questo preludio e pensare ad una partita con il Brasile in campo avrebbe fatto pensare ad una sconfitta dei Verdeoro, ma questo non succede nell’era Dunga, il quale sta provando di fatto a bissare il Mondiale vinto nel 1994 con un Brasile magari mediamente meno spumeggiante del solito ma decisamente più solido di tante altre edizioni. Il merito di Dunga è quello di badare unicamente al sodo, fregandosene altamente dei ghirigori. Il Mondo sognerebbe un Brasile tutto tecnica e tutto spettacolo come nell’82, tutti ricordano molto più quella squadra piuttosto che quella del 1994? Ebbene, Dunga ha la memoria più lunga e ricorda quale delle due squadre alla fine ha saputo alzare la Coppa del Mondo e sa bene a quale ispirarsi maggiormente.

La concretezza del Brasile porta all’eliminazione del Cile, squadra che ha mostrato momenti di grande calcio, ma che alla fine non ha avuto concretezza in tutto questo torneo, dimostrandosi decisamente fumoso. Le due vittorie nelle prime due partite del girone avevano illuso, portando alla beatificazione del “Loco” Bielsa, beatificazione forse un po’ affrettata anche sotto gli occhi di un esteta del calcio (come il sottoscritto): a ben vedere, l’Honduras nella prima partita era stato davvero poca cosa ma in ogni caso era rimasto in partita fino alla fine perdendo soltanto 1-0, mentre nella seconda partita la Svizzera è stata bucata solo nel finale nonostante un intero secondo tempo giocando in 10 uomini (espulsione assurda di Behrami per sceneggiata di Vidal), dando la sensazione che la grandissima organizzazione difensiva creata da Hitzfeld (gli elvetici sono forse la squadra che ha difeso meglio nella fase a gironi) avrebbe potuto resistere in parità numerica. Dalla partita contro la Spagna in poi c’erano i test definitivi per stabilire se il gioco del Cile fosse qualcosa di improponibile a certi livelli o se invece fosse davvero una ventata nuova in un calcio delle Nazionali dominato dal difensivismo: i match contro Spagna e Brasile hanno mostrato buoni momenti, ma sono tutto sommato una bocciatura severa che va al di là dei risultati. Sia chiaro, questa è una squadra pure piacevole da vedere in fase di possesso, con buon talento a centrocampo e movimenti offensivi coraggiosi e ben organizzati, ma ci sono due difetti sostanziali che rendono questo gioco difficilmente compatibile ad un calcio ad alti livelli: la difesa soffre in modo enorme l’atteggiamento sbilanciato della squadra, ma soprattutto questo modulo ultra-offensivo non è supportato da un attacco capace di garantire gol. Anzi, in avanti non si segna mai, ma soprattutto a ben vedere le tante belle azioni molto raramente portano ad occasioni da rete vere e concrete. Si ha allora una serie di alette e di trequartisti molto rapide, capace di saltare l’uomo e di trovare la giocata ad effetto, ma tutto si perde in un calderone molto fumoso: molto attrattivo agli occhi, per nulla concreto. Questo anche per le caratteristiche di qualche giocatore, molto portato alla giocata ad effetto, senza però aggiungere a questo un filo di concretezza e decisione: se manca questo, non solo non si creano occasioni, ma si perde palla in zona pericolosa e si subisce contropiedi a difesa scoperta. La tattica di Bielsa prova a frenare tutto ciò con una serie di falli tattici, che però nella partita contro la Spagna sono stati anche falli di eccessiva foga e hanno portato a tanti cartellini pesanti: non a caso, contro il Brasile mancavano due difensori pesanti proprio per squalifica. Sarebbe stato bello poter applaudire un gioco così nuovo e così propositivo in questo calcio moderno, ma la sentenza della giuria formata da Del Bosque e Dunga è chiara: bocciatura per assenza di prove concrete.

Gli unici problemi del Brasile risiedono nello sbloccare il risultato, ma anche sullo 0-0 l’undici di Dunga non rischia mai. Oltretutto, i brasiliani hanno giocatori decisamente più alti rispetto ai cileni e non è certo una sorpresa che il gol che rompe il ghiaccio arrivi su un corner incornato da Juan. Vittoria facile, di solidità e di squadra per il Brasile, che adesso troverà l’Olanda nei quarti di finale: può questa squadra arrivare fino in fondo? E soprattutto, ha la quantità necessaria di talento per vincere il torneo? Di certo, non può essere la fase difensiva il punto interrogativo del Brasile più solido del decennio, ma in effetti qualche dubbio sulla qualità rimane: Kakà non sembra in grande condizione, mentre Robinho è sempre difficile da valutare visto che può trovare la grande giocata ma allo stesso tempo può sparire dalle partite. Il quarto di finale tra Olanda e Brasile potrebbe essere il più intrigante, anche perché dovrà dirci molto di più sulle due squadre: è davvero la prova della verità per valutare le possibilità di successo di Orange e Verdeoro.

SILVIO DI FEDE

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Mentre i giornalisti brasiliani lo criticano per il gioco non all'altezza del passato e quelli italiani, orfani inconsolabili degli azzurri, passano il loro tempo in masturbazioni mentali come quella dei "3/4 della difesa verdeoro che militano in Italia" (come se Lucio e Juan non fossero mai passati dalla Bundesliga), il Cucciolo Dunga se la ride sotto i baffi e arriva ai quarti con una facilità imbarazzante. Dopo la Corea del Sud, anche l'altra squadra amata dalla critica viene sbattuta fuori da un avversario pragmatico al massimo livello: questa Seleçao è un mostro di concretezza e di solidità difensiva tale da far scatenare i commentatori rimasti agli anni '50, quelli cioè che si sorprendono di trovare difensori brasiliani di grandissimo livello (Nilton e Djalma Santos dovevano essere europei travestiti, sicuramente italiani) e che infliggono al povero telespettatore commenti come "questo non è il Brasile narciso di Zico" o "Dunga ha imparato come si allena giocando in Serie A" (in tal senso si segnala la perla del sempre lucido Bartoletti, che oggi pomeriggo sosteneva, riuscendo anche a rimanere serio, che l'Italia ha formato tutti i migliori ct del Mondiale...se non ci infilano il nostro campionato stanno male). Tornando a parlare di cose serie, il Cile di stasera ha deluso proprio come i sudcoreani, anche se a parziale giustificazione di Bielsa ci sono le cattive condizioni fisiche del Chupete Suazo, i cui gol sono troppo importanti per questa squadra; il 3-3-1-3 sarà anche esteticamente molto bello, ma se non c'è chi finalizza i ghirigori ricamati dai movimenti perfetti sul terreno di gioco sono dolori. Il Brasile infatti, pur rimanendo ampiamente sotto come possesso palla nella prima mezz'ora, in pratica non ha rischiato mai, ha fatto sfogare gli uomini di Bielsa e li ha poi messi ko con una doppia mazzata nel giro di 4 minuti, sfruttando i due maggiori difetti del sistema cileno: la mancanza di centimetri e la solitudine in cui spesso vengono lasciati i tre difensori. La partita è finita lì, il resto è stato pura accademia con il risultato mai in bilico. Cile altro bluff? El Loco ha fatto giocare un buon calcio ai suoi, ma una squadra che alla prova del nove non ha mai impensierito i rivali ed è andata irrimediabilmente sotto alle prime accelerazioni forse non era tutto questo granché. Ah, qualcuno dica a Kakà che il Mondiale è iniziato e che queste non sono le partitelle del mercoledì pomeriggio, grazie.

EDOARDO MOLINELLI

Olanda-Slovacchia 2-1: Robben (O) al 18' p.t.; Sneijder (O) al 39', Vittek (S) su rigore al 49' s.t.



OLANDA (4-5-1): Stekelenburg; Van der Wiel, Heitinga, Mathijsen, Van Bronckhorst; Van Bommel, De Jong; Robben (dal 25' st Elia), Sneijder (dal 45' st Afellay), Kuyt; Van Persie (dal 34' st Huntelaar). In panchina: Vorm, Boulahrouz, Ooijer, De Zeuuw, Braafheid, Schaars, Babel, Boschker, Van der Vaart. Allenatore: Van Marwijk

SLOVACCHIA (4-2-3-1): Mucha; Pekarik, Skrtel, Durica, Zabavnik (dal 41' st Jakubko); Kucka, Hamsik (dal 41' st Sapara); Jendrisek (dal 26' st Kopunek), Stoch, Weiss; Vittek. In panchina: Pernis, Cech, Kozak, Sestak, Sapara, Holosko, Salata, Petras, Kuciak Allenatore: Weiss.

ARBITRO: Undiano (Spagna)

NOTE: Pomeriggio soleggiato, terreno in buone condizioni. Spettatori: 69.957. Angoli: 5-2 per l'Olanda. Ammoniti: Robben, Kucka, Kopunek, Skrtl, Stekelenburg per gioco scorretto. Recuperi 0'; 3'


18 minuti interessanti, poi tanta noia a parte i soliti lampi di Arjen Robben. Ci si aspettava un bel gioco sul piano estetico dall’Olanda a questi Mondiali, ma dopo quattro partite finora non s’è mai visto: sono però arrivati i risultati, quattro vittorie che lanciano gli Orange ai quarti di finale con solo pochi patemi, dando una dimostrazione di praticità più che di solidità (a metà ripresa sono state concesse due grandi occasioni a Vittek con brutti movimenti difensivi).

Si ferma come era prevedibile il cammino della Slovacchia, squadra che però esce dai Mondiali con davvero grande onore, soprattutto per il grande exploit compiuto nel girone, con la grande prestazione e il successo contro l’Italia: nelle altre tre partite la squadra di Vladimir Weiss non ha saputo convincere al 100%, ma si tratta di una squadra che ha quantificato al meglio le proprie potenzialità e che deve accogliere questo traguardo con ottima soddisfazione.

La Slovacchia inizia molto bene la partita, mostrando coraggio e un atteggiamento molto propositivo: Vladimir Weiss (senior) conferma il 4-2-3-1 ma è costretto ad un cambio di formazione per la squalifica di Strba, con l’arretramento di Hamsik in mediana e l’innesto di Vladimir Weiss (junior) sulla trequarti a muoversi liberamente tra le linee (modulo di partenza molto dinamico, tanto che nella ripresa era Jendrisek a giocare centralmente). La squadra tiene bene il campo e mostra qualche combinazione importante, facendosi inizialmente preferire ad un’Olanda che però questa volta ha in formazione il super-talento Arjen Robben, schierato sulla destra con Kuyt a sinistra (e Van der Vaart in panchina): proprio l’esterno del Bayern Monaco mette in discesa la partita con una giocata delle sue.

Questo del 2010 sarà ricordato come il “Mondiale delle ripartenze”, vista l’enorme quantità di gol arrivata da un’azione di non possesso, con recupero di palla e partenza in contropiede o transizione: la Slovacchia perde palla su rimessa laterale in attacco e Sneijder lancia subito sulla destra ben sapendo che lì può trovare Robben, il quale taglia come al solito verso il centro cercando il sinistro. E’ un’azione in due contro tre con Van Persie che si getta sulla destra dettando il movimento a provare perlomeno a portare via un avversario, ma la difesa della Slovacchia sa perfettamente qual è la volontà di Robben e rimangono tre uomini vicino a dare fastidio alla conclusione dell’avversario: movimento buono e positivo, ma l’avversario non a caso si chiama Arjen Robben e nonostante tre uomini addosso spara una fucilata perfetta sul primo palo, mostrando in pieno tutta la propria classe e tutto il proprio talento. E’ un gol che va considerato come giocata individuale: per quanto abbastanza intelligente, il movimento di Van Persie si rivela inutile perché non porta via nessun difensore.

L’Olanda allora innesta il pilota automatico e controlla il match, che perde ritmo anche perché il gol finisce per togliere brillantezza alla Slovacchia, che non riesce più ad avanzare con grande precisione: la partita diventa così bruttina. Gli slovacchi non trovano spazi per i break sulla trequarti offensiva perché Van Bommel e De Jong giocano bassi a protezione della difesa, mentre Hamsik arretrato come interno di centrocampo dovrebbe dettare i tempi di gioco ma invece è protagonista di una prestazione del tutto anonima e incolore. L’Olanda dal canto suo non riesce ad essere frizzante in avanti e nel resto del primo tempo non crea chances per chiudere il match: Van Persie si muove molto ma ancora una volta in questo Mondiale non convince del tutto, Kuyt svolge il solito lavoro tattico ma apparentemente sulla sinistra è meno efficace, mentre Wesley Sneijder (a parte il lancio del primo gol) è piuttosto impreciso e sbaglia molto anche in azioni importanti, per una delle rarissime prestazioni incolore della sua stagione. Van Marwijk dovrebbe star tranquillo: difficile che giochi così altre partite in questo Mondiale, vista la sua continuità di rendimento.

Allora a regalare dei lampi tra gli sbadigli ci pensa Robben: altra classica azione a tagliare sul sinistro per il tiro dal limite, ancora una volta la difesa della Slovacchia chiude con tre uomini ma il mancino del 26enne è caldo e il tiro sul secondo palo è ancora una volta perfetto, con Mucha che deve intervenire con un grande intervento. Robben è capace di trovare due tiri in porta così letali con in entrambi i casi tre uomini addosso: questa chiamasi qualità.

La Slovacchia prova a muovere gli uomini in avanti ma non ha spunti brillanti di gioco, anche se a metà ripresa ha due grandi occasioni in successione, con Stekelenburg bravissimo ad opporsi su Stoch prima e su Vittek poi: la punta dell’Ankaragucu però era rimasto solissimo a centro area per un brutto movimento difensivo dell’Olanda e doveva trovare una soluzione decisamente migliore e più letale di un tiro piuttosto centrale che permette al portiere la respinta. Vittek ha poi la chance per rifarsi su un altro errore della linea dell’Olanda (Van der Wiel lo tiene in gioco), ma è lentissimo nell’attivarsi e spara malamente alto: la Slovacchia non ha giocato un secondo tempo entusiasmante con tanti elementi chiave sottotono (su tutti Hamsik), ma può e deve recriminare per questi sprechi della propria punta che avrebbero cambiato la partita, anche perché poi Sneijder impreziosisce la sua prova andando a realizzare il gol del 2-0 (prezioso assist di Kuyt e distrazione della difesa su punizione battuta rapidamente). Il gol di Vittek su rigore serve soltanto per le statistiche.

Olanda che ancora non sembra mostrare in pieno tutto il proprio potenziale: le qualità offensive sono talmente grandi che la squadra può vincere pur non convincendo, ma l’impressione è che questa squadra abbia la possibilità di giocare un calcio più brillante e più pericoloso in avanti. Il quarto di finale (contro Brasile o Cile) ci dirà se questa premessa sarà mantenuta nel momento più caldo del torneo o se rimarrà un’aspettativa disattesa.

SILVIO DI FEDE

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L’ottavo di finale meno divertente di quelli visti finora, ma per l’Olanda versione Sudafrica 2010 non è una novità. Non che gli slovacchi rappresentino un inno allo spettacolo, come già dimostrato nelle partite contro Nuova Zelanda e Paraguay. Il 4-4-1-1 schierato dal ct Weiss parla chiaro: nove uomini per contenere gli oranje, con Vittek unica punta in attesa di palloni giocabili. Una scelta probabilmente obbligata, quella del bravo tecnico slovacco, che finisce però con il depotenziare gente come Hamsik, Weiss e Stoch, i cui punti di forza sono gli inserimenti (al centro per il giocatore del Napoli, sulle fasce per i due giovani talenti) e il movimento sulla trequarti per dettare il passaggio. L’Olanda si adegua al ritmo piuttosto basso, cercando - e trovando - il gol per merito di una giocata del singolo, il classico Robben che rientra dalla destra e scocca il tiro al limite dell’area, piuttosto che grazie ad una manovra collettiva. I terzini bloccati nelle retrovie non aiutano ad incrementare la fluidità della manovra: un copione già visto contro Danimarca e Giappone. Inedite invece le due palle gol solari concesse nella ripresa dalla retroguardia oranje, finora inappuntabile, a Stoch e Vittek; in entrambi i casi Stekelenburg si fa trovare pronto. La Slovacchia resta chiusa fino alla fine, mostrando da un lato una buona tenuta al cospetto di un avversario di livello nettamente superiore, ma dall’altro evidenziando tutte le proprie carenza in fase di costruzione. Giocatore-simbolo è il centrocampista centrale Kucka (il migliore dei suoi), ottimo in fase di interdizione ma limitato quando si tratta di ripartire con la palla. Olanda micidiale in contropiede, ma ancora troppo spesso al piccolo trotto. I risultati però sono tutti dalla parte di Van Marwijk, pertanto c’è poco da discutere.

ALEC CORDOLCINI

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E' un'Olanda atipica ma vincente quella ammirata fino ad ora in Sudafrica: quattro successi - seppur non brillantissimi - in altrettanti incontri, ed in generale diciotto vittorie e sei pareggi nelle ultime ventitré sfide (in pratica l'ultima sconfitta risale al celebre Quarto di Finale con la Russia ad EURO 2008; sotto la guida di Bert van Marwijk è ancora imbattuta). Niente calcio totale, gioco basato principalmente sulle ripartenze mortifere e sulle giocate dei singoli, che se si chiamano Robben e Sneijder sono capaci di farti male in qualsiasi istante. Poco continua nel corso dei 90', mai realmente travolgente come in passato, ma più solida (sebbene oggi si siano viste le prime crepe nella difesa arancione) e concreta, intelligente perchè capace di intuire quando andare a colpire gli avversari.
Gli illusi che si aspettavano di vedere una goleada saranno inevitabilmente rimasti delusi: ciò non è avvenuto sia perchè l'Olanda ha continuato a dare l'impressione di voler giocare un pò a nascondino, sia grazie alla più che discreta prestazione fornita dalla Slovacchia, una compagine sicuramente non irresistibile ma dignitosa, non così inadeguata come alcuni disfattisti italiani ci avevano voluto far credere.

Una sorpresa annunciata il rientro nell'undici titolare di Robben: i 20' di allenamento concessi dal C.T. olandese contro il Camerun sono bastati per far capire a tutti che il fuoriclasse del Bayern Monaco ha già recuperato dall'infortunio che aveva messo a rischio la sua presenza al Mondiale. Costretto a cambiare qualcosa rispetto alla trionfale gara con i Campioni del Mondo in carica, lo slovacco Vladimir Weiss, che punta ancora su un 4-2-3-1, ma che varia la posizione di alcuni giocatori in campo: con l'assenza per squalifica di Strba, viene arretrato il raggio d'azione di Hamsik ed inserito il figlio omonimo del tecnico, titolare nelle prime due deludenti uscite. Confermati gli insidiosi Stoch e Jendrisek alle spalle dell'eroe nazionale Vittek, .
La prima occasione è per la Slovacchia: il 19enne Weiss si libera bene di un paio di avversari ed appoggia per Jendrisek, il cui tiro termina alto. Un segnale che i meno quotati slovacchi lanciano agli avversari: aggressiva sui portatori di palla e pressing alto per l'unica debuttante di Sudafrica 2010. Un tipico atteggiamento di chi non ha nulla da perdere. Ma di fronte questa volta non hanno il Di Natale di turno, bensì "Alien" Robben, che rientra sul mancino con il suo classico movimento e batte Mucha sul primo palo. Impreparata nella circostanza la difesa slovacca, ingenua a subire un contropiede dopo poco più di 15' e sul risultato ancora fermo sullo 0-0. Piuttosto squilibrata a centrocampo la formazione di Weiss, schierata con un solo giocatore abile nella fase difensiva, Kucka (elemento abbastanza interessante, classe 1987, che milita nello Sparta Praga); com'era prevedibile si fa sentire in mezzo al campo l'assenza dello squalificato Strba, fondamentale da un punto di vista tattico nello scacchiere slovacco. I "Tulipani" si chiudono bene, Hamsik e compagni accusano il colpo: il risultato è una conclusione poco esaltante della prima frazione di gioco, nella quale l'obiettivo dell'Olanda è quello di aspettare gli avversari, fargli uscire dal guscio, per poi punirli in contropiede.
Si va alla ripresa e la partenza degli Oranje è esplosiva: prima è Robben che con il solito guizzo semina il panico e chiama Mucha al grande intervento; poi il neo-estremo difensore dell'Everton è costretto a superarsi con un pò di fortuna su un tentativo da distanza ravvicinata di Mathijsen. Fatica a far gioco la Slovacchia, che paga in particolare il Mondiale sottotono di "Marekiaro" Hamsik, tanto straordinario come incursore quanto anonimo come regista di centrocampo. Con Vittek sempre raddoppiato e con i giovani Weiss e Stoch poco attivi, sembra una lenta agonia il secondo tempo della Slovacchia. Come d'un tratto, però, al 67' qualcosa cambia: Stoch si accende e di destro impegna Stekelenburg. Nell'azione successiva è ancora il portiere dell'Ajax a rendersi protagonista, questa volta opponendosi al tiro centrale di Vittek, liberato da un perfetto passaggio verticale di Kucka; l'ex bomber del Norimberga si gira bene, ma è poco lucido nel momento decisivo. Completamente a vuoto il tentato anticipo di Heitinga, la difesa arancione inizia a scricchiolare ed il momento è favorevole alla Slovacchia, che però non lo sfrutta, sciupando un'ulteriore palla gol sempre con il giustiziere dell'Italia. Errori che contro avversari di questo calibro non ti puoi permettere di commettere: da una punizione dalla trequarti, mal interpretata dalla difesa slovacca, nasce il gol che chiude il conto, messo a segno a porta vuota da Sneijder, su gentile omaggio del sempre utilissimo Kuyt. Tutto nasce da un presunto fallo (la gamba era alta, ma sarebbe stato meglio non fischiare nulla) commesso da Škrtel, il quale, invece di tornare indietro a dare una mano ai suoi compagni, continua a protestare con il fiscale fischietto spagnolo Undiano Mallenco, lasciando un buco centrale nel quale si infila il suo compagno di squadra nel Liverpool. Proprio all'ultimissimo giro di orologio, ecco il rigore per la Slovacchia, procurato dal subentrato Jakubko: Vittek trasforma, togliendosi la soddisfazione di raggiungere Higuaín momentaneamente in testa nella classifica marcatori. E' una rete però inutile, che fa aumentare i rimpianti di una Slovacchia che torna a casa comunque tra gli applausi.
Rimangono ancora i dubbi sull'Olanda, nazionale che finora non ha mai toppato a differenza di altre candidate alla vittoria finale ma che allo stesso tempo ha dato l'impressione di essere ancora inespressa. E' forte la voglia di vedere questa squadra - che gioca in tranquillità con un ritmo sempre abbastanza lento e compassato - di fronte ad un impegno gravoso, per capire se gli Oranje hanno volutamente giocato con il freno a mano tirato o se sono veramente questi.

ALBERTO FARINONE

Argentina-Messico 3-1: Tévez 26'(A); Higuaín 33'(A); Tévez 52'(A); Hernández 71'(M).


ARGENTINA (4-3-1-2): Romero; Otamendi, Demichelis, Burdisso, Heinze; Maxi Rodriguez (dal 42’ s.t. Pastore), Mascherano, Di Maria (dal 34’ s.t. Gutierrez); Messi; Tevez (dal 24’ s.t. Veron), Higuain. (Pozo, Andujar, Samuel, Clemente Rodriguez, Garce, Bolatti, Palermo, Milito, Aguero). All. Maradona.

MESSICO (4-4-1-1): Perez, Juarez, Osorio, Rodriguez, Salcido; Giovani, Marquez, Torrado, Guardado (dal 16’ s.t. Franco); Bautista (dal 1’ s.t. Barrera); Hernandez. (Ochoa, Michel, Castro, Blanco, Vela, Aguilar, Moreno, Magallon, Torres, Medina). All. Aguirre.

ARBITRO: Rosetti.

NOTE: spettatori 84.377. Ammonito Marquez. Recupero 2’ p.t., 3' s.t.


Se neppure una favolosa Germania può occultare la gravità di un errore come quello del gol-fantasma di Lampard, immaginatevi se un altro svarione, ugualmente grossolano, può essere occultato dall’ennesima partita (di questo passo arrivano in finale…) che non ci ha detto tutta la verità sull’Argentina, mai realmente dominante contro un Messico un po’ sfortunato, un po’ ingenuo (l’errore di Osorio sul 2-0 è imperdonabile, e taglia le gambe) ma di certo gravemente penalizzato dalla mancata segnalazione del fuorigioco di Tévez sul gol che sblocca la partita.

Sempre camaleontico Aguirre: stavolta un 4-4-1-1, dove Juarez fa il terzino destro, Márquez gioca sulla stessa linea di Torrado, Guardado fa chiaramente l’esterno e soprattutto, novità assoluta, Adolfo “el Bofo” Bautista del Chivas Guadalajara si piazza fra le linee a sostegno del Chicharito Hernández, promosso dal primo minuto.
Il Messico controlla, non vuole concedere la profondità agli attaccanti argentini e quindi non difende troppo alto, però si stringe all’altezza del cerchio di centrocampo, chiude le linee di passaggio centralmente e raddoppia sugli esterni. Bofo aiuta parecchio il centrocampo nel pressing, anche se il suo contributo creativo si rivela nullo.
L’Argentina evidenzia quelle difficoltà a far decollare la manovra già intuibili a una lettura della formazione, con quattro difensori bloccati (Otamendi e non Jonás a destra), incapaci di superare la prima linea avversaria, e Mascherano unico riferimento del centrocampo in fase di costruzione (Verón non gioca, Maxi è totalmente estraneo alla cosa), quindi con le caratteristiche di Mascherano… Statica, lenta e leggibile l’Argentina, obbliga perciò Messi a retrocedere tantissimo per prendere questa benedetta palla, ma l’azione di Leo, al di là dei soliti spunti palla al piede, troppo lontano dalla zona calda risulta forzatamente dispersiva.
Non solo non soffre il Messico, ma propone, perché la sua priorità resta il possesso del pallone, anche contro l’Argentina. Vantaggio strategico anche qui: contro il rombo di centrocampo di Maradona (coi tre giocatori offensivi abbastanza tagliati fuori dai ripiegamenti) è facile trovare la superiorità, perché anche quando sulle sovrapposizioni fra Salcido e Guardado Maxi riesce ad aiutare Otamendi, resta comunque libero un giocatore messicano per riiniziare centralmente, e in questo spazio poi i tagli da destra di Giovani dos Santos rappresentano la solita opzione insidiosa.
Con Juarez terzino inutile dal punto di vista offensivo (perché niente più Aguilar dopo l’esordio col Sudafrica?) sulla destra, il Messico carica gran parte del suo gioco offensivo sulla ricchissima fascia sinistra, su Guardado e su un Salcido ancora una volta straordinariamente esuberante, discese a ripetizione, qualità e una sassata da casa sua che quasi abbatte la traversa (il giocatore del PSV sembra aver capito meglio di tutti come si calcia questo Jabulani: uno spettacolo le sue traiettorie che si abbassano all’improvviso), seguita da un altro quasi-gol di Guardado (raffinatissimo esterno a fil di palo dal limite dell’area).
Ma interviene la svolta col gravissimo errore di Rosetti e Ayroldi, che sconcerta ancora di più se si considera che i due si son presi pure il tempo di ripensarci nel mentre che il maxischermo del Soccer City di Johannesburg metteva a nudo lo strafalcione, inducendo lo stesso Javier Aguirre ad allargare le braccia in segno di protesta.
È una botta psicologica tremenda per il Messico, che va nel pallone e regala anche il secondo gol quando Osorio strozza un retropassaggio permettendo a Higuaín di inserirsi e dribblare il portiere con un elegantissimo controllo di suola. È chiaro che per il calcio di controllo paziente del Messico gestire due gol di svantaggio non è come gestire uno 0-0, ed è anche chiaro che l’uno-due scioglie l’Argentina, che si avvicina al gol in un paio di occasioni alla fine del primo tempo.

Una volta che trova l’episodio giusto per sbloccare le gare, va ribadito che le individualità argentine sono di gran lunga le più incontrollabili del torneo. Dal Messichenonsegneràmaiinquestomondiale (è destino che dopo averne dribblato cinque o sei e aver piegato un palo o le mani del portiere trovi sempre il compagno che con un misero tap-in s’iscriverà sui tabellini degli almanacchi consegnando il proprio nome alla storia…) al Tévez che fulmina l’incrocio in uno dei più bei gol visti finora. Il Messico si trova sotto di tre e neanche sa il perché.
A inizio ripresa ci aveva provato comunque Aguirre, togliendo un Bofo trasparente per inserire il dribblomane Barrera all’ala sinistra, passando a un 4-3-3 nel quale Márquez torna alla più classica posizione di unico uomo davanti alla difesa, spalleggiato da Torrado sul centro-destra e Guardado sul centro-sinistra. Il Messico continua a giocare, ma più per dovere che altro. È piuttosto sterile la sua azione: apre il campo ma stancamente si limita a buttare cross dentro, improduttivi perché troppo spesso Hernández rimane l’unica opzione per finalizzare nell’area avversaria.
Così Aguirre avvicina Guille Franco (non proprio Hugo Sánchez) al Chicharito, spostando Barrera a destra. Chicharito ribadisce la sua natura di giocatore non molto partecipe alla manovra ma rapido e velenoso come un serpente australiano dell’interno (altro che Cobra!) man mano che ci si avvicina alla porta. Golazo il suo, Sir Alex si frega le mani.
Solo l’onore per il Messico però, c’è poco tempo e poco da fare perché Maradona, in maniera scontata ma saggia si copre per assicurare il risultato con un 4-4-2 più classico dopo gli ingressi di Verón per Tévez e Jonás Gutiérrez per Di Maria (ancora un po’ spaesato il talento del Benfica).
Sarà la Germania a denudare il Re?

VALENTINO TOLA

domenica 27 giugno 2010

Germania-Inghilterra 4-1: Klose (G) al 20, Podolski (G) al 32', Upson (I) al 37' p.t.; Mueller (G) al 22' e al 25' s.t.


GERMANIA (4-2-3-1): Neuer; Lahm, Mertesacker, Friedrich, Boaeting; Schweinsteiger (dal 38' s.t. Kiessling), Khedira; Mueller (dal 27' s.t. Trochowski), Oezil, Podolski; Klose (dal 27' s.t. Gomez). (Wiese, Butt, Jansen, Aogo, Tasci, Badstuber, Kroos, Marin, Cacau). All: Low.

INGHILTERRA (4-4-2): James; G.Johnson (dal 42' s.t. Wright-Phillips), Terry, Upson, A.Cole; Milner, Lampard, Barry, Gerrard; Defoe (dal 26' s.t. Heskey), Rooney. (Green, Hart, Dawson, Lennon, J.Cole, Warnock, Carragher, King, Carrick, Crouch). All: Capello.

ARBITRO: Larronda (Uruguay)

NOTE - Spettatori 40.510. Ammoniti Johnson e Friedrich per gioco scorretto. Angoli 4-6. Recuperi p.t. 1'; s.t 2'.

Auf Wiedersehen, Inghilterra. La spumeggiante Germania di Löw impartisce una lezione di calcio ai sudditi di Elisabetta II, candidandosi prepotentemente ad un posto nella finale di Johannesburg.
L'andamento dell'incontro è chiaro sin dalle prime battute, sufficienti all'Inghilterra per palesare le proprie lacune: Gerrard e Milner, accentrandosi, vanno a creare un'eccessiva densità in zona centrale finendo con l'otturare gli spazi. I terzini, Johnson ed Ashley Cole, non riescono a proporsi con la costanza «slovena» perché tenuti bassi da Müller e Podolski: il gioco ristagna, privo di sbocchi esterni. La Germania, che difende con ordine, attende di recuperare il pallone (alto, possibilmente) per dedicarsi al gioco che più le piace, quello basato sul fitto fraseggio volto ad aprire varchi per l'imbucata centrale dell'attaccante di turno. Accortezza del giorno, quella di agire prevalentemente sul centrodestra per sfruttare la lentezza di Upson e la scarsa propensione difensiva di Ashley Cole: da lì partono i tagli di Klose (l'1-0 ne è la dimostrazione) ed è proprio in quella zona che agisce - e si inserisce - Özil nel primo tempo.
Gli inglesi, che soffrono la dinamicità degli avversari, evidenziano l'assenza di un «cervello»: l'incursore Lampard ed il mediano Barry non garantiscono la quantità di fosforso necessaria alla fluidità della manovra che, come detto poc'anzi, ristagna in zona centrale e trova nei cambi di gioco di Gerrard le uniche, flebili variazioni ad un copione tremendamente monotono. Rooney ci prova andandosi a prendere il pallone a quaranta metri dalla porta, ma non è in questa maniera che ha segnato 34 gol nell'ultima stagione; con il passare dei minuti, complice la disperazione, piovono illogici lanci lunghi: cosa possono Defoe e Rooney contro due marcantoni come Friedrich e Mertesacker?
Ma l'attacco non è certo il più grande cruccio di Capello, perché i guai veri li passa James (pessimo in occasione del 3-1) a causa di una carente fase difensiva. Maglie troppo larghe, eccessiva distanza tra i reparti - follia pura, quando affronti una squadra che schiera tre uomini sulla trequarti - ed una preoccupante staticità consente a Schweinsteiger di pensare calcio (sia lode a van Gaal, maestro di calcio) mentre Müller, Özil e Podolski sfruttano a meraviglia i movimenti di Klose, perfetto nell'attirare Upson sull'esterno in occasione del 2-0. Veder giocare la Germania, questa Germania che mangia kebab e balla il samba, è una gioia per gli occhi: fraseggio stretto con palla rigorosamente a pelo d'erba, ottima qualità tecnica e rapidità d'esecuzione magistralmente fusi in una manovra offensiva che include almeno quattro uomini, con Khedira sempre pronto ad inserirsi.
La bella favola tedesca rischia però d'interrompersi sul finire del primo tempo, quando un doppio errore difensivo (Neuer esce a vuoto, Friedrich sceglie l'uomo sbagliato) consente ad Upson di riaprire la partita. Complice la verde età ed un'inesperienza latente, la Germania sbanda quel tanto che basta a Frank Lampard per scagliare il bolide del pareggio che oltrepassa nettamente la linea ma non viene convalidato: Geoff Hurst al contrario.
Il primo quarto d'ora di ripresa scivola via placidamente, con l'Inghilterra protesa in avanti alla ricerca del pari e la Germania che approfitta della scarsità di idee degli avversari per attirarli nella trappola del contropiede. Müller è lo spietato esecutore, i mandanti si chiamano Schweinsteiger - ripeto: grazie van Gaal - ed Özil.
Considerazioni finali: un'ala vera come Walcott, capace di andare sul fondo e dotato di gran passo, non avrebbe fatto comodo a questa piattissima Inghilterra? Lo stesso dicasi per un regista puro come Carrick: più facile trovare una cascata nel deserto che un'idea in questo centrocampo.

ANTONIO GIUSTO

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Un Mondiale 2010 nato malissimo per l’Inghilterra si chiude in modo ancora peggiore: dominati e sopraffatti in tutto e per tutto dalla Germania, i Three Lions non solo escono (come tutto sommato era anche preventivabile) al cospetto di una grandissima Nazionale, ma escono con le ossa del tutto rotte, maciullate da un’inferiorità netta e totale sul piano tecnico, tattico e di mentalità che probabilmente non s’è mai vista nella storia di questa grande rivalità tra le due Nazionali.

Non è un’eliminazione normale, è un tracollo vero e proprio in un Mondiale che doveva essere quello del rilancio in grande stile dopo il fallimento delle qualificazioni per Euro 2008, in un Mondiale che doveva vedere l’Inghilterra competitiva fino all’ultimo, che doveva essere vinto: per questo era stato ingaggiato un ct con la fama da vincente come Fabio Capello, per questo si era investito tantissimo su di lui e sul suo stipendio. Dopo i fuorvianti risultati del girone di qualificazione, la figuraccia fatta alla fase finale dei Mondiali rende del tutto fallimentare questo investimento della Federazione, perché i Three Lions hanno giocato un girone pessimo con due prestazioni mediocri e una terza appena discreta per poi crollare al primo vero ostacolo, un po’ come successo quattro anni fa con Sven Goran Eriksson in panchina con la differenza che lo svedese non era stato accolto con questo alone di “santone” del calcio, con la differenza che allora il girone fu vinto, fu evitato un ottavo difficile e la squadra si fermò ai quarti di finale in un match giocato per gran parte in inferiorità numerica (l’espulsione di Rooney) e ai calci di rigore contro il Portogallo: qui contro la Germania non è arrivata un’eliminazione, è arrivata una lezione di calcio.

Il momento più discusso e chiacchierato della partita è figlio di una grande controversia, una specie di clamoroso revival di quanto successo nella (più volte ricordata nella vigilia) finale del Mondiale ’66, quando a regalare a quella grandissima Inghilterra il successo fu un gol fantasma: al 101’ dei tempi supplementari la conclusione scagliata da Geoff Hurst andò a sbattere sulla base interna della traversa e rimbalzò un pizzico sulla linea di porta, ma questa carambola ingannò il guardalinee azerbaigiano Tofik Bakhramov che convinse in qualche modo lo svizzero Gottfried Dienst (i due non parlavano la stessa lingua) ad assegnare il gol. Poi al 120’ minuto lo stesso Geoff Hurst sentenziò il match con l’hat-trick e il definitivo 4-2, ma chiaramente allora la Germania era del tutto scoperta alla ricerca di un nuovo pareggio in extremis (già il gol del 2-2 del difensore centrale Wolfgang Weber era arrivato con il match agli sgoccioli) e chiaramente quella rete del 3-2 è da considerare quella che di fatto decise quel Mondiale. A 44 anni di distanza il destino ha voluto giocare sopra questo avvenimento storico e ribaltare tutto: appena riaperta la partita, l’Inghilterra s’è lanciata subito in avanti con la conclusione di Lampard che sbatte sulla traversa interna e poi rimbalza un metro buono oltre la linea di porta, ma in maniera incredibile né il guardalinee Mauricio Espinosa né l’arbitro Jorge Larrionda hanno visto un episodio davvero netto, risultando probabilmente gli unici in tutto lo stadio a non essersene accorti. Risiedono tutte qui le recriminazioni dell’Inghilterra, perché questo sarebbe stato il gol del 2-2 e avrebbe rimesso in corsa la squadra inglese, ma in realtà sono recriminazioni nate da un evento davvero assurdo e clamoroso ma che allo stesso tempo sono poco più che disperate: lo sa capitan Gerrard, lo sa la squadra, lo sa parte dei media (la BBC su tutti) che non è stato questo episodio importante la reale causa del disastro visto da parte dell’Inghilterra. E’ un episodio assurdo che crea e deve creare mille perplessità sul piano tecnico, ma in realtà non si può dare solo a questo le reali ragioni di un risultato netto e lampante: gli errori arbitrali assumono importanza devastante quando a vincere è la squadra che sul campo aveva dimostrato di meritare meno, oppure quando in campo c’è un grandissimo equilibrio. Ebbene, questo non era il caso di questa partita, perché prima e dopo quel gol fantasma la Germania si era dimostrata di un altro livello rispetto all’Inghilterra, si era dimostrata almeno due/tre gradini sopra: questo è quanto mostrato dalla partita, questo è quanto ammesso dai calciatori inglesi (anche sportivamente, come molto sportivi sono stati i calciatori tedeschi, che hanno ammesso senza giri di parole di esser stati molto fortunati, parlando anche di “evento decisivo” con signorilità) e non è un caso che l’unico dell’Inghilterra a recriminare solo su questo avvenimento sia un italiano (evidentemente è proprio nel dna), ovvero il ct Fabio Capello. Gol o non gol, il risultato di 4-1(+1) e il gioco visto in campo dimostra che ai quarti di finale avanza la squadra nettamente più forte, nettamente più in forma e nettamente più talentuosa: stop.

Nell’analisi ampia della partita però quest’episodio rappresenta una specie di specchietto per le allodole da proporre a chi guarda il calcio con occhi banali, proprio come l’erroraccio di Green lo era stato per il match contro gli Stati Uniti: la vera causa dell’eliminazione dell’Inghilterra è una certa inferiorità mostrata contro la Germania. Inferiorità dovuta anche al fatto che molto degli elemento della “Golden Generation” arrivano alle grandi competizioni sempre scoppiati e non riescono mai a riproporre in Nazionale le prestazioni che invece mostrano normalmente nei club: Lampard in questo match è stato forse il migliore dell’Inghilterra, ma in generale rispecchia perfettamente questo discorso, perché in Nazionale è sempre il fratello scarso del Lampard che ammiriamo settimana per settimana al Chelsea. Stessa cosa per il compagno di squadra John Terry, grande simbolo di questa sconfitta: il capitano dei Blues è stato un totale disastro, il primo ad affondare facendosi trovare sempre fuori posizione e sbagliando tutto, creando di fatto una cascata nella quale sono finiti poi tutti i compagni della difesa. Terry non arrivava da una grande stagione per prestazioni personali, ma mai lo si era visto così rintronato come nel primo tempo di questo match (non che nella ripresa le cose siano migliorate). Che dire poi di Wayne Rooney, la stella e il simbolo dell’Inghilterra: chiude il Mondiale senza avere mai convinto, con zero gol nel carniere e di fatto senza esser mai andato particolarmente vicino alla realizzazione, davvero irriconoscibile e fuori condizione (leggermente giustificato dai problemi fisici che gli hanno condizionato il finale di stagione: necessita più di tutti di una pausa). Questo senza dimenticarci di Steven Gerrard: aveva avuto una stagione tribolata con il Liverpool anche per i problemi fisici e si pensava che questo potesse preservarlo bene per i Mondiali, ma in realtà anche lui è apparso al 10% rispetto a quanto lo vediamo di volta in volta in Premier League.

Il refrain è allora il solito: “nel calcio inglese si gioca troppo e per questo i calciatori arrivano cotti al Mondiale”. Ok, ma perché in questi ottavi di finale abbiamo visto correre come dei matti senza un istante di pausa e mostrare una buonissima condizione gente come Carlos Tevez, Javier Mascherano, Park Ji-Sung, Kevin-Prince Boateng, John Mensah, John Pantsil o Clint Dempsey (senza dimenticare un Nadir Belhadj che ha giocato tre partite incredibili per corsa e mobilità)? Non giocano anche loro in Premier League? Il fatto che calciatori che militano nelle altre Nazionali riescono a correre e che invece quelli dell’Inghilterra appaiano tutti delle mammolette non deve essere ascritto alla Premier League e ai calendari fitti, quanto unicamente al tipo di preparazione che ogni volta viene svolto dalla Nazionale sul piano fisico: it’s a fact.

Nel calderone deve entrare assolutamente anche Fabio Capello, ingaggiato per vincere: arriva l’eliminazione agli ottavi di finale, in una sfida difficilissima ma che l’Inghilterra aveva trovato arrivando al secondo posto del girone. La squadra è arrivata ai Mondiali cotta giocando un calcio osceno, ma soprattutto difendendo in maniera squilibrata: Capello è stato preso per la sua qualità nell’impostare ottimamente la fase difensiva, ma in questo match si sono visti orrori incredibili e questo deve porre un grande punto interrogativo anche sul suo lavoro, comunque ampiamente fallimentare in questa fase finale dei Mondiali.

Non è stata però solo l’Inghilterra ad essere ampiamente inferiore, ma è stata la Germania ad essere decisamente superiore: l’ultimo Mondiale a cui la Mannschaft ha partecipato non arrivando tra le prime 8 risale addirittura al 1938, il che spiega perfettamente la forza e la continuità di una Nazionale capace sempre o quasi di arrivare fino in fondo, per una mentalità splendida e vincente, per una capacità di saper sempre valorizzare la propria forza. In passato però eravamo abituati ad una Germania che principalmente era tignosa e fisica, ma adesso osserviamo una squadra capace di rubare l’occhio anche in termini estetici, capace di regalare azioni spettacolari e brillantissime per livello tecnico: è una Nazionale del tutto diversa, che punta non solo sulla grandissima organizzazione ma anche sull’estro delizioso dei tanti giovani lanciati da Joachim Low. Questa Germania è lo specchio di un lavoro federale, che ha puntato moltissimo sul vivaio, crescendo così talenti davvero importanti e vincendo anche molto a livello giovanile, traendone fuori una Nazionale che non solo è temibile perché è molto dura da affrontare, ma che oltretutto adesso è anche molto bella da vedere e molto forte: in un match ampiamente dominato, la squadra di Low ha avuto qualche momento di difficoltà (dopo il gol del 2-1) mostrando forse la mancanza di un vero mediano di filtro, però è un collettivo piuttosto entusiasmante che ha superato un esame difficile (sulla carta) e a pienissimi voti, grazie al super-talento di Mesut Ozil, grazie al dinamismo di Bastian Schweinsteiger, grazie ai riflessi di Manuel Neuer (colpevole con Boateng del gol subito), grazie a due elementi che (al contrario degli inglesi) si trasformano in positivo con la maglia della Nazionale come Miroslav Klose e Lukas Podolski, come l’umile e sempre brillante Thomas Muller (probabilmente il migliore in campo per il grande lavoro svolto e per la doppietta che ha abbattuto definitivamente l’Inghilterra). Per quanto visto nel torneo e per quanto visto in questi 90 minuti non c’è dubbio: è davvero meglio per il torneo se ad andare avanti è questa Germania forte e divertente, un capolavoro di mentalità e qualità. Occhio perché questa Germania ha anche un serbatoio molto ampio e un’età media molto bassa: qui possono esserci le basi per far bene e per divertire in questo modo molto a lungo. Gary Lineker diceva: “Il calcio è uno sport che si gioca undici contro undici e alla fine vincono i tedeschi”. Il fatto è che ora divertono pure.

SILVIO DI FEDE

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Qualsiasi allenatore con la rosa che ha portato Lippi in Sudafrica avrebbe fatto la stessa fine del viareggino. Gli ex campioni del mondo sono ormai bolliti da due anni buoni, quelli dell’età di mezzo non sono arrivati in forma (vedi Chiellini e De Rossi), i giovani erano troppo di primo pelo, senza nessuna esperienza internazionale, per giocarsi la partita decisiva a centro all’ora. Nazioni come Italia, Olanda, Uruguay, Spagna avranno sempre un contraccolpo del genere dopo un Mondiale vinto o una generazione intoccabile. Non abbiamo le possibilità di buttare fuori talenti a raffica di Argentina e Brasile e non abbiamo il coraggio, forse anche giustamente, di abbandonare una generazione vincente per fare una squadra del tutto nuova. Inoltre, per brasiliani e argentini, il grande passo per maturare calcisticamente è l’arrivo in Europa, più che la chiamata della Nazionale, mentre i nostri calciatori se non si trovano a giocare i match importanti in Coppa o con l’Italia restano dei pulcini. È accaduto già nel 1974 e nel 1986, i messicani e gli spagnoli hanno avuto un’altra chance e nei quattro anni di mezzo non si è potuto/voluto far crescere la generazione di mezzo, ripartendo con i giovanissimi e pescando due volte ottimi calciatori, subito messi davanti a situazioni di campo molto difficili. Quelli del 1978 hanno poi vinto nel 1982, quelli del ’90 sono arrivati in finale nel 1994. Così faremo ancora, ripartendo da un allenatore a cui sarà dato ampio margine di manovra proprio nell’investimento sui giovani calciatori e, con l’opinione pubblica così irata nei confronti della gerontocrazia invadente, Prandelli può anche non qualificarsi per Euro 2012 (rischiamo) e avere sempre un credito da spendere.
Se Lippi è da condannare con la condizionale, il vero guaio lo ha combinato Capello. Lui aveva i calciatori giusti nel momento migliore della carriera (Terry è stato uno dei peggiori, Lampard e Rooney mediocri, Gerrard a buon livello), con la giusta esperienza internazionale che li ha fatti grandi. In due anni di Inghilterra, Capello non è riuscito a far crescere un portiere o farselo naturalizzare (insistere sui tre che ha portato in Sudafrica è stato un suicidio), non ha creato alternative valide, facendo giocare quasi sempre la stessa squadra, non ha fatto giocare vicino a Rooney un giocatore diverso dal già visto. Lippi ha fatto quello che tutti ci aspettavamo con terrore e per questo ci ha delusi a metà. Capello ha fatto vedere una squadra che nessuno credeva debole, anche se, per colpa sua, le ragioni di una sconfitta dura c’erano tutte.

JVAN SICA

sabato 26 giugno 2010

Stati Uniti-Ghana 1-2 d.t.s.: Prince Boateng (G) al 5' p.t.; Donovan (S) rig al 17' ; Gyan (G) al 3' p.t.s.



STATI UNITI (4-4-2): Howard; Cherundolo, Bornstein, Demerit, Bocanegra; Dempsey, Clark (31' s.t. Edu), Michael Bradley, Donovan; Altidore (1' s.t.s Gomez), Findley (1' s.t. Feilhaber). All. Bob Bradley.
Panchina: Guzan, Hahnermann, Goodson, Spector, Onyewu, Torres, Holden, Clark, Buddle

GHANA (4-2-3-1): Kingson; Pantsil, Jonathan Mensah, John Mensah, Sarpei (28' s.t Addy); P. Boateng (32' s.t Appiah), Annan; Inkoom (7' p.t.s. Muntari), K. Asamoah, André Ayew; Asamoah Gyan. All: Rajevac.
Panchina: Agyei, Ahorlu, Tagoe, Derek Boateng, Vorsah, Abeyie, Amoah, Vorsah, Ibahim Ayew, Adiyiah.

ARBITRO: Kassai (Ungheria)
NOTE: ammoniti: Clark, Cherundolo, Jonathan Mensah, Ayew.


Gli “early goals” subiti sono la caratteristica del Mondiale degli Stati Uniti e costano l’eliminazione all’altezza degli ottavi di finale, per una Nazionale che ha attirato molte simpatie per un gioco fatto di grande agonismo che ha conquistato in tanti e soprattutto ha conquistato il popolo americano, che s’è visto attratto dal calcio molto più di quanto fosse pensabile appena una decina di anni fa, tanto che diversi programmi di approfondimento e anche le dirette delle partite di baseball hanno visto aperte finestre importanti sul “soccer”: lo US Team si sarà pure fermato agli ottavi di finale, ma questo Mondiale sudafricano può essere un anello molto importante per la crescita del movimento negli States (discorso simile a quello fatto per la Nuova Zelanda ma ovviamente decisamente più ampio, visto che le potenzialità di una popolazione così ampia e di una Nazione con così grande cultura sportiva sono ampissime). Ad approfittarne è invece il Ghana, che conferma difetti e pregi visti nella fase a gironi ma ci mette una grandissima volontà e diventa la terza africana capace di raggiungere i quarti di finale di un Mondiale, dopo il Camerun di Roger Milla del 1990 e il Senegal (exploit molto effimero) del 2002: l’orgoglio di un intero continente è tutto sulle spalle delle Black Stars, che ora puntano a diventare i primi africani capaci ad arrivare in semifinale.

Dicevamo degli “early goals”, la costante più negativa del buonissimo Mondiale degli Stati Uniti, che nel girone avevano subito gol nei primi minuti contro Inghilterra e Slovenia, mentre contro l’Algeria la porta è rimasta imbattuta solo grazie alla traversa che aveva respinto un tiro di Djebbour. Bob Bradley non è riuscito a porre rimedio a questo difetto sostanziale e la squadra paga con un altro “early goal”, subito questa volta da Kevin-Prince Boateng dopo un brutto pallone perso a centrocampo da Clark, una delle novità di formazione degli Stati Uniti con una formazione rimescolata: in avanti torna Findley, viene riproposto il centrocampo del match contro l’Inghilterra (con proprio Clark ad affiancare Michael Bradley) e viene confermata la difesa vista contro l’Algeria (con Bornstein terzino sinistro e Onyewu giustamente in panchina dopo due prestazioni pessime). Anche questa partenza però è decisamente molle, con gli Stati Uniti che per la prima mezz’ora non riescono proprio a tenere il ritmo del Ghana a centrocampo, con l’undici africano che si rende pericoloso: in mediana per una volta è Kevin-Prince Boateng a giocare meglio di Annan, sempre utile ma un po’ meno efficace del solito. A riequilibrare tutto a centrocampo è la scelta sacrosanta di Bob Bradley di togliere un Clark del tutto disastroso e inserire un giocatore più attivo e più di sostanza a centrocampo come Edu, che influisce nella crescita della squadra nel finale di primo tempo.

A completare il ritorno in palla degli Stati Uniti è un altro correttivo di Bob Bradley, che dopo l’intervallo toglie Findley per inserire Feilhaber sulla sinistra e avanzare Dempsey nel ruolo di seconda punta: di fatto, sono scelte simili a quelle viste contro la Slovenia e il centrocampo e l’attacco sono identici rispetto a quel secondo tempo, quando si era avuto la sensazione di una formazione più adatta, di un assetto capace di esprimere meglio le qualità della squadra. Sensazione confermata alla perfezione perché gli Stati Uniti trovano ritmo e cominciano a spingere in maniera forsennata, facendo soffrire il Ghana che si disunisce e mostra un difetto sostanziale già visto nella fase a girone: la squadra ha le possibilità per ribaltare l’azione e puntare in contropiede, ma lo fa con azioni individuali che comunque finiscono per non essere particolarmente incisive, finiscono per non sfruttare al meglio la potenzialità dell’azione e portano di solito al tiro da fuori sistematico (un tipo di soluzione che sul sito della BBC è stato descritto come “anti Arsenal”, ovvero come l’opposto dei Gunners che invece per mentalità tendono a voler entrare spesso con il pallone nella rete avversaria). Ciò accade non certo per demeriti di Asamoah Gyan, che da prima punta svolge un lavoro pazzesco, correndo per tutto il fronte d’attacco, garantendo spunti e grande qualità: per essere più incisivo andrebbe maggiormente supportato. Sulle fasce Inkoom sembra fuori ruolo (in un paio di occasioni si fa cogliere in fuorigioco chilometrico), mentre Andrè Ayew ha grandi numeri ma spesso è fumoso. Il peggio però lo si ha centralmente, con Kwadwo Asamoah che sparisce totalmente nella ripresa, dopo che nel primo tempo era stato la principale causa del mancato raddoppio dei ghanesi, per le sue imprecisioni e i suoi sprechi: oggetto misterioso, perlomeno a questi Mondiali.

Gli Stati Uniti attaccano con un calcio furioso ma di qualità: Feilhaber è a tutto campo e ricama gioco, la presenza di Edu permette al sempre ottimo Michael Bradley di potersi spingere continuamente in avanti con buoni inserimenti da dietro, mentre Donovan e Dempsey dialogano con qualità mostrando anche qualche giocata capace di rubare l’occhio, come il tunnel su John Mensah del calciatore del Fulham nell’azione che porta al rigore dell’1-1. Jozy Altidore ci mette la solita esplosività e le solite sponde, ma ancora una volta dimostra di non vedere la porta e spreca malamente un paio di chance importanti per ribaltare il risultato: il 20enne visto la scorsa stagione all’Hull City sarebbe anche abbastanza completo, ma è il classico attaccante che non segna e proprio la sua incisività finisce per mancare a posteriori agli Stati Uniti, finisce per essere decisiva per questa eliminazione. Il Ghana soffre in difesa, soprattutto perché Jonathan Mensah alterna grandi chiusure a buchi allucinanti, mentre il quasi omonimo John Mensah non è mai un mostro nella posizione ma se la cava con la solita splendida determinazione che lo contraddistingue: sulle fasce, bene Pantsil sulla destra, molto meno Sarpei sulla sinistra.

Gli Stati Uniti però non riescono a tenere questo ritmo e nell’ultimo quarto d’ora accusano un leggero calo fisico, in un finale ormai dominato dalla paura di perdere e di subire l’eliminazione proprio sul più bello. Si potrebbe pensare a dei tempi supplementari altrettanto bloccati, ma subentra la sindrome dell’ “early goal” che colpisce gli Stati Uniti anche all’inizio dei supplementari: la dormita di Bocanegra diventa pesantissima, anche perché Gyan ne approfitta alla grandissima tirando una fucilata devastante nella rete avversaria e trovando un gol tutt’altro che facile, il gol decisivo che vale la qualificazione. Il Ghana infatti ritrova energie e frustra le velleità degli Stati Uniti con un buon possesso palla, in cui influisce molto il subentrato Stephen Appiah, il quale mostra la propria esperienza e una buona dote di saggezza. Gli Stati Uniti perdono lucidità ma riescono comunque negli ultimi cinque minuti a creare qualche mischia in area di rigore cercando le palle alte, ma non trovano lo spunto giusto ed escono sconfitti.

E’ però un Mondiale molto positivo per la squadra americana, che ha mostrato di essere in continua crescita anche sul piano tecnico: continuando di questo passo, molto probabilmente gli Stati Uniti produrranno difensori più tecnici di DeMerit e Bocanegra o attaccanti più concreti e allora diventeranno una Nazionale ancora più completa. Di certo, non sono più quegli Stati Uniti piuttosto “pioneristici” che avevamo visto nei Mondiali del ’94, ma sono lo specchio di un movimento in crescita evidente: questo match ha visto probabilmente la squadra di Bob Bradley (bravo nella gestione del gruppo e nel dare un gioco alla squadra, anche se qualche scelta di formazione è discutibile) globalmente meritare leggermente di più rispetto all’avversario, ma è stata una bella partita tutto sommato molto equilibrata e l’episodio giusto è arrivato dalla parte del Ghana. Si crea così un quarto di finale di difficile lettura: il Ghana ha decisamente più talento dell’Uruguay a centrocampo e tutto sommato sembra leggermente più affidabile in fase difensiva (specialmente se la determinazione nelle chiusure riesce a colmare in parte una lacuna nel piazzamento dei centrali difensivi), ma la squadra di Tabarez dispone di armi decisamente più affilate in attacco e oggi contro la Corea del Sud ha dimostrato anche di saper trovare gol dal nulla, caratteristica che fondamentalmente è opposta a quella del Ghana (che invece tende ad incidere molto meno di quanto dovrebbe per la mole di gioco espressa). Ricorderemo questo ottavo di finale come un buon vortice di emozioni e come un match di buon livello tecnico, ma anche per alcune immagini caratteristiche: una su tutta, la ormai classico giro di campo di corsa solitario di John Pantsil a fine partita. Al Fulham ormai amano questo suo particolare modo di esultare al termine di partite importanti, visto anche dopo i match contro Germania e Stati Uniti, questa volta con tanto di bandiera ghanese: impagabile.

SILVIO DI FEDE

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Come il Camerun nel '90 ed il Senegal nel '02. Il Ghana eguaglia le uniche due formazioni del Continente Nero capaci di raggiungere il traguardo chiamato Quarti di Finale di un Mondiale, e non si pone limiti, conscio del fatto che contro l'Uruguay può assolutamente giocarsela alla pari. Al termine di una gara di buon livello, combattuta ed equilibrata per 120', è il popolo africano - unitosi tutto intorno alle Black Stars - a gioire ed a festeggiare per quello che rimane un avvenimento storico. Con il Ghana, continua infatti il sogno dell'Africa, nel Mondiale di casa sua.
Grande tristezza e molti rimpianti, al contrario, per gli USA, confermatisi una squadra vera, in grande crescita. Di questo passo il futuro calcistico non può che essere sempre più roseo per gli States, assistiti in tribuna da alcuni ospiti d'eccezione, su tutti l'ex Presidente Bill Clinton, affiancato dal leader dei Rolling Stones, Mick Jagger.

Pronti, via e il Ghana passa in vantaggio con Kevin-Prince Boateng, che sfrutta la sua caratteristica predominante: la progressione palla al piede, che gli permette di involarsi verso la porta, superando Howard (rivedibile nell'occasione, così come DeMerit che non accorcia a sufficienza sul centrocampista del Portsmouth) con un sinistro a fil di palo. Tutto nasce però da un errore di Clark, che si fa sottrarre la sfera da Asamoah in una zona pericolosissima. La maggior parte del primo tempo è favorevole al Ghana, più brillante, che copre ottimamente il campo e che mantiene un buon possesso palla. Gli Stati Uniti sono in evidente difficoltà e soffrono in particolare gli inserimenti dei centrocampisti, come quello del friulano Asamoah al 27', che sbaglia il facile appoggio per l'accorrente Boateng, che si sarebbe ritrovato in una posizione favorevolissima. Bradley padre capisce che c'è qualcosa che non va e prova a porre rimedio togliendo Clark ed inserendo Edu, giocatore già utilizzato in mezzo al campo nelle precedenti esibizioni. La prima occasione per gli americani arriva poco dopo, in seguito ad una brutta palla persa dagli avversari, con Findley che però - a differenza di Boateng ad inizio match - non concretizza, facendosi ribattere la conclusione da Kingson.
Nella ripresa Bob Bradley, rivelatosi nel corso di questi Mondiali un C.T. particolarmente dotato nel cambiare volto alla sua squadra dopo i primi 45', rimescola le carte, inserendo Feilhaber al posto dell'evanescente Findley, spostando Dempsey nel ruolo in cui rende di più, ovvero quello di centrocampista-incursore in appoggio della prima punta. Gli USA appaiono fin dalle battute iniziali più convinti e schiacciano la difesa del Ghana, non più alta come nel primo tempo. E' il neo-entrato Failhaber a cambiare la partita, prima impegnando il sempre attento Kingson e poi servendo un invitante pallone a Dempsey, bravo ad inserirsi come sempre con i tempi giusti ed a saltare John Mensah con tanto di tunnel, venendo poi steso dal giovane Jonathan Mensah. Rigore lampante, che capitan Donovan trasforma. Notevole la crescita degli statunitensi nella ripresa, letteralmente invertita la situazione della prima frazione di gioco: ora sono loro a fare la partita ed a rendersi pericolosi in più circostanze (al 67' è ancora Kingson a salvare il risultato con un'uscita disperata su Altidore). La difesa ghanese perde la concentrazione che l'aveva contraddistinta, ma nè Bradley figlio nè tantomeno il generoso ma impreciso Altidore (mezzi fisici in grado di mettere in crisi qualsiasi difensore, ma il gol per lui resta una chimera) ne approfittano, non riuscendo così ad evitare alla loro nazionale la fatica dei tempi supplementari. Errori che verranno pagati a caro prezzo dagli americani, che capitolano in apertura del primo tempo supplementare: un rilancio dalle retrovie mette in crisi la disattenta difesa a stelle e strisce, con i due centrali lontanissimi fra loro e con Asamoah Gyan che ringrazia inserendosi alle spalle di Bocanegra e battendo l'estremo difensore avversario. Una costruzione casuale del gol che evidenzia tutti i limiti della retroguardia americana. Gli Stati Uniti non ci stanno e provano a reagire, ma senza il mordente di prima, anche perchè il cambio Altidore-Hérculez Gómez non porta gli effetti sperati (i difensori africani soffrivano enormemente la prestanza e la forza fisica del centravanti che ha trascorso l'ultima stagione in prestito all'Hull City). Il cammino di Donovan e compagni si ferma così a Rustenburg, quello dei ragazzi di Milovan Rajevac continuerà a Johannesburg.

ALBERTO FARINONE

Uruguay-Corea del Sud 2-1: Suarez (U) al 7' p.t; Chung-Yong (S) al 23', Suarez (U) al 35' s.t.



URUGUAY (4-3-1-2): Muslera; Maxi Pereira, Lugano, Godin (1'st Victorino), Fucile; Diego Perez, Arevalo, Alvaro Pereira (24' st Lodeiro); Forlan; Suarez (40' st A.Fernandez), Cavani. (Castillo, Silva, Gargano, Eguren, Abreu, I.Gonzalez, Scotti, S.Fernandez, Caceres). All. Tabarez.

COREA DEL SUD (4-4-1-1): Sungryong; Cha Du-Ri, Yong-hyung, Jung- Soo, Young-Pyo; Jae-Sung (16' st Dong-Gook), Jung-Woo, Sung-Yeung (40' st Ki-Hun), Chung-Yong; Park Ji-Sung; Chu-Young. (Woon-Jae, Young-Kwang, Beom-Seok, Hyung-il, Nam-Il, Bok-Young, Jungh-Wan, Seung-Yeoul, Dong-Jin, Min-Soo). All. Huh.

ARBITRI: Stark (Germania)

NOTE: spettatori 40.000 circa. Angoli: 3-3. Ammoniti: Jung-Woo, Yongh-Yung. Recupero: 1'; 3'.



Un terreno di gioco indecoroso che con la forte pioggia del secondo tempo peggiora ulteriormente, un arbitraggio pessimo (anche se gli errori sono più o meno equamente suddivisi) e una squadra dalla mentalità decisamente speculativa: c’è tutto perché il primo ottavo di finale di questi Mondiali diventi un match piuttosto dimenticabile, ma a rendere divertente il match c’è la Corea del Sud che mostra un buon calcio e nel secondo tempo domina per lunghi tratti. Il gioco del calcio però spesso e volentieri sa esprimere verdetti illogici e allora ad avere la meglio è la squadra che meno avrebbe meritato la vittoria, un Uruguay che trova gli episodi giusti in 90 minuti mal giocati e male interpretati.

La Corea del Sud si fa decisamente preferire, ma paga una certa indisciplina difensiva vista nel primo tempo, con la linea a quattro e il portiere che hanno commesso degli errori davvero banalissimi, rischiando più e più volte il capitombolo: non a caso, il gol che sblocca il match arriva proprio su un cross di Forlan davvero mal giudicato da Jung Sung-Ryong, per l’ennesima papera di un portiere a questi Mondiali. La squadra di Huh Jung-Moo prende in mano decisamente il gioco già nel primo tempo ma senza convinzione, scuotendosi decisamente nella ripresa alzando i ritmi, cercando le combinazioni continue tra i mobilissimi quattro elementi offensivi e creando occasioni, ma peccando di un altro elemento per essere decisivo ai fini del risultato finale, ovvero l’incisività negli ultimi metri: con un killer da area di rigore, la squadra sudcoreana con ogni probabilità avrebbe portato a casa la vittoria, quantificando meglio le grandi occasioni avute. Il gol del pareggio arriva su un doppio errore di Victorino e Muslera in mischia, ma Lee Chung-Yong dopo il gol del pareggio fallisce una grandissima occasione con una finalizzazione pessima e nel finale anche Lee Dong-Gook combina un pasticcio sprecando un’enorme chance: il buon Park Chu-Young ha ottime movenze ma non è il tipico attaccante di area di rigore, quanto più una seconda punta, così come gli altri trequartisti sono bravissimi in appoggio ma non sono stati concreti negli ultimi metri. E’ la mancanza che costa carissimo alla Corea del Sud, che nella ripresa aveva reagito alla grande.

Gli episodi e un grande Luis Suarez premiano oltremodo l’Uruguay, che come sempre pratica un calcio piuttosto speculativo e mai del tutto convincente: anche in questo torneo per la maggior parte del tempo la squadra di Tabarez ha pensato a coprirsi, facendolo però decisamente meglio rispetto a questo secondo tempo, quando la squadra non riusciva mai ad uscire per respirare, perdeva metri e appariva in totale affanno fino al gol del pareggio. Nel primo tempo l’Uruguay ha lasciato all’avversario in mano il gioco difendendo il gol di vantaggio ma lo aveva fatto abbastanza bene, non subendo molto negli ultimi metri anche grazie a tante buone chiusure di Diego Godin: la sua uscita dal campo (quasi sicuramente per i problemi fisici che lo avevano tenuto fuori anche per il match contro il Messico) è stata pagata decisamente dalla squadra, perché Diego Lugano ha temperamento ma poca lucidità mentre Victorino ha fatto parecchi danni apparendo spesso fuori posizione. Il centrocampo con onesti pedalatori ma con poca qualità non aveva aiutato e allora i tre attaccanti si erano trovati del tutto isolati (oltretutto, Cavani è stato abbastanza un fantasma in campo), per una squadra spaccata in due e in sofferenza. Sul piano tecnico e tattico la partita è totalmente nelle mani della Corea del Sud, ma a sfuggire a questi dettagli razionali c’è Luis Suarez, vero e proprio trascinatore dell’Uruguay in questo match: dopo il gol di rapina del primo tempo, nella ripresa trova dal nulla un tiro a giro fenomenale vincendo quasi da solo la partita e nascondendo i difetti dei compagni di squadra. Straordinario.

Avanza allora l’Uruguay delle individualità e del calcio speculativo: in fase di costruzione però il livello medio non è certo soddisfacente e nemmeno questa mentalità improntata un po’ troppo alla difesa del risultato e alla ricerca dell’episodio (mentalità un po’ tipica della scuola uruguaiana) può convincere più di tanto. Sarebbe stato decisamente più interessante vedere ai quarti di finale questa Corea del Sud frizzante, con ottima organizzazione e movimenti sempre molto collaudati: probabilmente però alla squadra di Huh Jung-Moo sono mancate quelle individualità di spicco che invece l’altra asiatica rimasta in corsa (ovvero il Giappone) ha. Di certo, i sudcoreani hanno peccato di concretezza e nel corso del torneo (pensando anche al match contro la Nigeria) sono stati parecchio indisciplinati in difesa: è un peccato, perché la Corea del Sud ha lasciato intravedere momenti brillanti in un torneo mediamente piuttosto scadente e poco divertente.

SILVIO DI FEDE

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Se amate l'estetica, il "futbol bailado" e altre amenità del genere l'Uruguay non è e non sarà mai la vostra squadra in questo Mondiale, ma da oggi tutte le altre pretendenti al titolo dovranno fare seriamente i conti con la Celeste del Maestro Tabarez. Che efficacia, che solidità difensiva e che sfoggio di attaccanti di livello hanno i sudamericani, tornati a qualificarsi ancora una volta per i quarti di finale della Coppa del Mondo quarant'anni dopo Mexico '70, dove si arresero solo allo strabiliante Brasile di Pelé, Jairzinho, Rivelino e Tostao. La Corea del Sud non ha giocato male, anzi ha dominato lunghi tratti della ripresa, ma ha mostrato tre difetti davvero a mio avviso imperdonabili: un attacco sprecone, una difesa impresentabile e una tenuta psicologica non ottimale, motivi che mi spingono ad andare controcorrente e ad affermare che questa non mi è sembrata la squadra degna di tutte le attenzione che le sono state finora tributate. Gli asiatici fanno tanto movimento e praticano un buon calcio, cercando sempre di far correre la palla a terra e di ragionare, tuttavia non mi convincono del tutto; d'altra parte, già con la Nigeria avevano rischiato fortemente di uscire, mostrando di soffrire oltremodo avversari fisici e rabbiosi. ancorché meno orgaizzati tatticamente. All'Uruguay sono bastate due fiammate per passare il turno: prima hanno sfruttato un errore da terza categoria dell'intera difesa degli asiatici (sul cross basso di Forlan Sung-Ryong non è il solo responsabile, visto che i quattro davanti a lui hanno dormito), quindi hanno accelerato dopo il gol del pari e hanno spinto senza fatica i sudcoreani nella propria metà campo, trovando il 2-1 grazie alla magia di Suarez. Nel mezzo, un controllo senza affanni nel primo tempo e una grande sofferenza nel secondo, dovuta anche all'uscita dal campo di un impeccabile Godin (Victorino non è piaciuto, perché non provare Caceres?). In generale, insomma, mi ha convinto molto di più l'Uruguay, che non giocherà a mille all'ora e non avrà grandi palleggiatori nel mezzo, ma che finora ha incassato solo un gol e sa fare malissimo quando attacca grazie alle qualità dei suoi uomini di punta. E se la sudamericana meno accreditata finisse per essere una delle grandi sorprese del torneo...?

EDOARDO MOLINELLI

Cile-Spagna 1-2: Villa (S) al 24', Iniesta (S) al 37' p.t.; Millar (C) al 2' s.t.


CILE (4-3-3): Bravo; Medel, Jara, Ponce, Vidal; Isla, Estrada, Beausejour; Sanchez (dal 20' s.t. Orellana), Valdivia (dal 1' s.t. Paredes), Gonzalez (dal 1' s.t. Millar). (Pinto, Marin, Fuentes, Contreras, Fierro, Tello, Suazo). All.: Bielsa.

SPAGNA (4-2-1-3): Casillas; Ramos, Piqué, Puyol, Capdevila; Busquets, Xabi Alonso (dal 28' s.t. Martinez); Xavi; Iniesta, Villa; Torres (dal 10' s.t. Fabregas). (Valdes, Reina, Albiol, Marchena, Arbeloa, Silva, Pedro, Llorente, Navas). All.: Del Bosque.

ARBITRO: Rodriguez (Mes).

NOTE: spettatori 41.958. Espulso Estrada al 37' p.t. per somma di ammonizioni. Ammoniti Medel per gioco scorretto, Ponce per c.n.r.. Angoli: 3-4. Recupero: 2' p.t., 2' s.t..


La prestazione forse più scadente degli ultimi due-tre anni basta alla Spagna per accedere agli ottavi di finale, e pure come prima del girone. Le Furie Rosse si salvano grazie alle individualità, a quel po’ di cinismo nei momenti decisivi del match, alla goffaggine dell’arbitro (quello che a Estrada vale il secondo giallo è uno sgambetto del tutto involontario su Torres, e il Niño si abbandona pure a un’infame sceneggiata) e a una certa ingenuità degli avversari. Rimane l’impressione di una squadra tremendamente confusa, almeno per il momento non all’altezza delle sbandierate aspirazioni mondiali. Del Bosque prosegue nella sua incomprensibile opera di smantellamento del sistema vincente consolidatosi dopo il ciclo di Aragonés, e la cosa peggiore è che non sembra in grado di rendersi conto che tutto questo non funziona.
Almeno il lieto fine è salvo per il Cile: vedere la Svizzera (incapace di segnare un gol all’Honduras: a volte il calcio, questo sport crudele, ti obbliga anche ad attaccare) passare al posto della squadra di Bielsa sarebbe stata una pugnalata.

Prima dell’espulsione di Estrada, il Cile però dà una lezione di calcio in piena regola a una Spagna irrigidita e snaturata.
L’arma di distruzione di massa di Del Bosque si chiama doble pivote. La convinzione semplicistica che per ottenere più equilibrio si debba obbligatoriamente schierare due giocatori bloccati, due centrocampisti “di posizione” davanti alla difesa. Lui vuole avere Makelele e Flavio Conceição per forza, anche quando non ci sono. E poi in conferenza stampa praticamente dichiara di voler reincarnarsi in Busquets. Non ci sono possibilità che si smuova da questa scelta, se addirittura a sostegno della propria tesi sconfina nella metafisica chiamando in causa misteri insondabili come la vita dopo la morte.
Il fatto però è che con due piazzati davanti alla difesa la Spagna non è più equilibrata, anzi. C’è una nettissima spaccatura fra i quattro difensori+il doble pivote e il resto della squadra. E se sei lungo quando giochi la palla, sarai lungo anche quando la perdi e devi recuperarla.
La Spagna è sempre troppo schiacciata indietro quando inizia l’azione: con Aragonés c’era un solo centrocampista di posizione davanti alla difesa, poi tanti giocatori che a rotazione, con grande frequenza e possibilità di scelta per il portatore di palla, offrivano l’appoggio e si scambiavano posizione, smarcandosi pian piano verso zone più avanzate. Questo permetteva all’azione di progredire, e in un momento successivo dava i tempi giusti d’uscita ai terzini in sovrapposizione. Tutta la squadra si compattava con molta più facilità attorno al pallone.
Ora tutto questo è stato smantellato, Busquets e Xabi Alonso son sulla stessa linea, i terzini rimangono bassi ed è dall’attacco e dalla trequarti che devono abbassarsi eccessivamente per venire a prendere palla. Nel caso in cui si abbassano dalla trequarti, prendono palla in situazione scomoda, spalle alla porta, un’esca per il pressing avversario che solo la pura qualità individuale dell’Iniesta di turno può disattivare; nel caso invece in cui non si abbassano, allora scatta il lancio lungo, obbligato più volte (troppe volte) dal pur fenomenale pressing cileno. Squadra lunga, e quando l’avversario recupera il pallone, ha sempre tantissimo tempo per pensare in questo spazio fra i 6 uomini difensivi e i 4 offensivi della Spagna.
Grida vendetta poi vedere Xavi impiegato come una specie di brutta copia di un trequartista: tocca molti meno palloni (ci sono le statistiche), è marcato spalle alla porta, non è mai nel vivo del gioco e non può dettare i tempi. Praticamente gli è vietato fare quello che sa fare meglio di tutti in questa squadra. Questo si chiama auto-sabotaggio: incredibile, il punto di forza indiscusso di questa nazionale, il centrocampo, si sta convertendo a furia di forzature nel punto debole.
La mia non è una polemica verso Busquets in sé (buon giocatore che individualmente sta pure rendendo) né una negazione preconcetta del fatto che la Spagna possa arrivare a giocare bene anche con un sistema diverso: soltanto invoco il buonsenso di affidarsi a ciò che i giocatori conoscono meglio e sono più portati a fare.

E in questa disarmonia spagnola il Cile arriva sempre primo sul pallone, recupera facilmente col pressing e poi allestisce i suoi arrembaggi a pieno organico, insistenti e vertiginosi. Mi Chupete Querido è arrivato al torneo in condizioni improponibili, quindi Bielsa fa leva su Valdivia, cervello più raffinato dello squalificato Matias Fernández, falso centravanti alla Messi (che dico Messi… alla Honda!): sul movimento di questo, né attaccante né centrocampista, e chi se lo piglia?, parte poi in incursione dalla seconda linea il potente Beausejour, che taglia alle spalle della difesa spagnola disattivando il possibile fuorigioco. Finchè sono 11 contro 11, il sistema difensivo iberico fa acqua su questa situazione. Grande il Cile per come alterna passaggi corti, lunghi e cambi di gioco: è difficilissimo non andare mai in inferiorità numerica quando difendi contro una squadra che copre il campo così bene.
Gioca a memoria, meccanizzato all’estremo, e risulta quasi inquietante perché alla fine arrivi a non distinguere i diversi giocatori: sono tutti a turno fantasisti, attaccanti, ali e difensori. Frutto anche della polivalenza imposta con lacrime e sangue da Bielsa: i giocatori cileni, che nei primi tempi della sua gestione non capivano perché venissero sballottati di volta in volta fra fascia e centro, fra difesa, centrocampo e attacco, ora hanno il vantaggio di una superiore flessibilità mentale, la capacità di pensare da attaccanti pur essendo difensori e viceversa (uno di questi, Vidal, ha comunque avuto da sempre il privilegio di una polivalenza enciclopedica). Perché una squadra è sempre un tutto unico.
Il difetto del Cile ultraveloce però è l’incapacità di frenare in alcuni momenti: già notata una certa precipitazione contro la Svizzera, a volte la ricerca esasperata della verticalizzazione è un rischio eccessivo, e secondo come e dove perdi la palla puoi così esporre la tua difesa alta. Questo è successo anche con la Spagna, e il Cile ha sofferto situazioni puntuali di contropiede pur dominando la gara. Una di queste ha fruttato l’immeritato vantaggio spagnolo, un regalo bello e buono di Bravo, in folle uscita quando la cosa più logica sarebbe stata rimanere fra i pali e lasciare che il difensore accompagnasse verso l’esterno Torres.
E a riconferma dell’ingenuità cilena, e dell’incapacità spagnola di arrivare a creare attraverso uno straccio di gioco, anche lo 0-2 arriva da un errore cileno: stavolta un disimpegno di Jara che si fa rubare palla da Iniesta, che poi finalizzerà con classe. Il recupero di Iniesta (parte teoricamente da destra nel tridente, ma viene incontro e porta su palla, meglio di niente in mancanza di un gioco) e il solito Piqué son le uniche note positive della prestazione spagnola: ma sono completamente isolate da un contesto collettivo minimamente favorevole.

Il gol del raddoppio porta con sé anche l’errore arbitrale che condiziona il resto della partita. Cile coraggioso lo stesso, Bielsa che si gioca il tutto per tutto con un 3-3-3 nel secondo tempo (“Treccani” Vidal scala a centrocampo sulla sinistra, con Isla al centro e il neo-entrato Millar a destra; Beausejour avanza nel tridente, mentre lascia un po’ di amaro in bocca l’uscita di Valdivia per Paredes, attaccante di ruolo ma anche giocatore più limitato), e Spagna imbambolata ad inizio ripresa, perché sono i sudamericani a fare la partita e a trovare il gol con Millar deviato da Piqué, fortunoso ma meritato (passività totale della difesa spagnola nell’occasione).
Anche in superiorità numerica la Spagna sembra scricchiolare, e Del Bosque ricorre al primo cambio: Cesc per Torres (ancora negativo, anche se i suoi movimenti son sempre preziosi per allungare la difesa avversaria). Questa sì una mossa sensata: si ripropone il tourbillon in mezzo al campo, ci sono più appoggi che permettono a tutta la squadra di uscire con più facilità e prendere ossigeno, facendo finalmente valere la superiorità numerica. Xavi poi può arretrare qualche metro e soprattutto entrare di più in contatto col pallone e vedere la giocata di fronte, sulla trequarti ci va Cesc che è più capace di adattarsi alla posizione rispetto a Xavi, più verticale.
Non c’è praticamente più partita (entra anche Javi Martínez, che va destra, al posto di Xabi Alonso), perché il Cile esaurisce le energie, confida nell’incapacità offensiva della Svizzera (che dovrebbe fare due gol per passare) sull’altro campo e inizia a preoccuparsi più di non prendere gol per non alterare la differenza-reti (una volta potranno speculare un po’ anche loro? E che diamine!). Il controllo spagnolo si converte così in una melina sempre più irritante man mano che ci si avvicina al novantesimo.

VALENTINO TOLA

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La disparità di qualità in campo poteva distruggere il match, specie dopo l'ingiusta espulsione di Estrada. Il risultato del match della Svizzera (ottimo mondiale, nonostante tutto), bloccato sul pari, ha convinto anche gli spagnoli a rallentare nel finale, però il Cile ha ampiamente fatto il suo e merita la qualificazione. Il lavoro di Bielsa è favoloso, desolante ci sia lo scopre solo oggi ma tant'è: la coperta però è corta, senza Suazo il Cile fatica troppo a trovare la via della rete. E ieri ha molto pesato anche la squalifica di Carmona: la fase di recupero palla, per riottenerla e giocarla al ritmo desiderato è la fase chiave dei cileni, e il reggino è stato uno scudiero fedelissimo in tutta la fase di qualificazione. Quello che impressiona è davvero la personalità di giocare sempre la palla: dare a Bielsa quel che è di Bielsa. Spagna sorniona ma qualitativamente superiore: i primi due gol sono un regalo, la squadra di Del Bosque si limita poi a controllare, il tempo delle battaglie deve ancora iniziare.

CARLO PIZZIGONI